Tuesday, March 17, 2009

Sull'antimanuale di economia

L'antimanuale di economia di Bernard Maris (Marco Tropea editore, 2005) si legge come un romanzo; sullo sfondo della sua prosa semplice e discorsiva vengono toccati quasi tutti i punti critici della teoria economica mainstream. Chissà che il linguaggio letterario non sia a sua volta una critica indiretta alla profonda natura retorica delle "scienze" economiche!

La costruzione del libro gioca però a sfavore dell'autore e del suo compito di offrire anche ai novizi della materia una sorta di manuale eterodosso, una guida del paese "Economia": solo chi ha attraversato con spirito critico i pericolosi territori dell'economia neoclassica, destreggiandosi fra modelli, equazioni, autori e scuole di pensiero, potrà apprezzare appieno tutte le citazioni ed i riferimenti inseriti; soltanto coloro che hanno studiato qualcosina di economia ecologica e di antropologia economica riusciranno ad effettuare i giusti collegamenti...

Se a questa componente "strutturale" aggiungiamo alcune banalizzazioni, l'accento troppo marcato sulla storia/realtà francese (e di conseguenza - come lo definirebbe Beck - il "nazionalismo metodologico" che permea il volume) l'opera di Maris perde un po' rispetto alle aspettative che la caratterizzavano.

Detto questo il libro resta molto carino, ben fatto e ovviamente interessante, in particolare i primi capitoli nei quali si fa direttamente riferimento (critico o apologetico) ad autori storici, modelli divenuti "classici" e "pilastri" teorici della scienza economica; interessante la scelta di inserire degli estratti dai testi di riferimento alla fine di ogni capitolo (meno interessanti, invece, alcuni - solo alcuni - degli autori scelti).

L'autore riesce nell'operazione di creare un libro capace di racchiudere buona parte degli sguardi alternativi ed eterodossi sul mainstream economico; per questo motivo l'antimanuale di economia resta un ottimo inizio (o un'ottimo ripasso) per tutti coloro che, credendo davvero nelle potenzialità della teoria economica, rifiutano di chiudere gli occhi e di spegnere il cervello e restano sempre alla ricerca di nuovi e intriganti modi per guardare, leggere e spiegare la realtà.

p.s.: Il libro è, in fondo e in modo nemmeno troppo nascosto, un'ode spassionata a John Maynard Keynes, ma non c'è niente di male in questo!

Friday, March 6, 2009

Amartya Sen e l'identità individuale e collettiva

Pubblico oggi la recensione a "Identità e Violenza" e "l'Altra India", i due libri più recenti di Amartya Sen (premio Nobel per l'economia 1998), fatta dalla mia amica Lucia Ferrone, e pubblicata anche sulla famosa rivista fiorentina il Ponte (quella fondata da Piero Calamandrei il quale, per inciso, è stato il fondatore negli anni della guerra dell'AFE, l'Associazione dei Federalisti Europei poi confluita nell'MFE... ma questa è un'altra storia).


Amartya Sen e identità individuale e collettiva.

Commento a Identità e violenza e L'Altra India.

Il filo che collega i due volumi può sembrare sottile e all'apparenza inesistente: il primo, Identità e Violenza (Laterza, 2006), affronta il problema, in maniera 'focosa' e quasi di getto, della definizione dell'identità individuale. Un problema complesso e antico, di cui Sen tratta il nodo principale: è possibile per un individuo definirsi con un'unica identità? E' possibile che una appartenenza prevalga sulle altre in modo netto? La trattazione è ovviamente divulgativa e non filosofica, centrata sugli avvenimenti e i problemi dell'attualità, tuttavia mette in luce alcune tematiche principali che vedremo di seguito.

L'altro volume di cui si parla, L'altra India (Mondadori, 2005), è una raccolta di sedici saggi in cui il Professore tratta, direttamente o più indirettamente, dell'India, della sua storia e della sua cultura e tradizioni; è una raccolta rivolta quasi più agli indiani stessi che non agli "stranieri", per quanto molto ci sia da imparare da questa lettura.

Il sottotitolo del secondo volume è peculiare: "La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana".

Quello che Sen sembra proporsi, raccogliendo questi saggi e dando loro un corpus organico e logico, è di sfatare il mito dell'identità indiana comunemente sentita, ovvero sfatare il mito dell'India come culla del misticismo religioso, degli indiani "spirituali" tanto cari al pensiero New Age degli anni Settanta; questa visione dell'India è distorta, dice Sen: figlia di un passato coloniale che ha pesato in maniera decisiva sulla costruzione dell'identità indiana. Da buon 'illuminista', Amartya Sen ci tiene a far conoscere al mondo il lato profondamente razionale e scientifico della cultura e della storia indiane.

E' a questo punto evidente il filo conduttore che lega le due trattazioni: da una parte si ha il problema dell'identità individuale, dall'altra un'identità collettiva: l'"indianità"; in entrambi i casi quello che a Sen preme sfatare è l'idea -che oggi sembra predominante- che l'identità possa essere unica e, soprattutto, univoca.

Il pensiero corrente, dice Sen, sembra partire da due presupposti. In primo luogo, la convinzione che l'identità di un individuo sia unica e univocamente determinabile in base al sistema di riferimento scelto: se si parla di divisioni geo-politiche, o di "civiltà", tanto per richiamare il più volte citato Huntington, si è "occidentali" o si è "islamici" oppure "indù", e c'è poca scelta nell'essere l'uno o l'altro; in secondo luogo, ed è un errore di tipo simile, il pensare che un'identità collettiva, raggruppante più persone, possa essere al suo interno assolutamente omogenea, senza divisioni rilevanti di sorta, senza alcuna soluzione di continuità.

Dunque, partendo da questi due presupposti, spiegare il mondo diventa quantomai semplice e rassicurante: se un gruppo di persone risponde a una identità collettiva, che è omogenea e unica, ogni individuo all'interno di quel gruppo è univocamente determinato, con tutto ciò che questa determinazione comporta.

Sen ci mette sull'avviso di ciò a cui porta questa divisione del mondo (e non importa che sia una divisione a due, tre o anche cento parti): una percezione assolutamente distorta, che concentra i problemi dell'esistenza in "cosa" si è, e, conseguentemente, da che parte si sta. Una visione che semplifica i problemi complessi e unici che ogni individuo, come ogni collettività, affronta.

Questo tipo di attribuzione identitaria avviene principalmente per confronto, definendo il "loro" e quindi il "noi". La psicologia sociale ci viene in aiuto per capire alcuni meccanismi correlati a questo processo: nel percorso di definizione di un "noi" interno al gruppo di riferimento e un "voi" che comprende tutto il resto; in questa divisione accade che il proprio gruppo viene percepito come composto da individui unici, differenziati tra loro. Gli "altri" diventano un crogiolo indistinto cui è facile affibbiare questo o quell'abito.

Per fare un esempio molto banale: noi italiani sappiamo benissimo distinguere fra un Piemontese e un Calabrese: ne vediamo tutte le differenze, a cominciare da quelle linguistiche, che pure appartengono a una stessa lingua; al contrario gli "immigrati" sono un corpo unico, in cui difficilmente riusciremmo a distinguere differenze che non siano evidenti.

Questo tipo di visioni dividono semplicisticamente il mondo tracciando muri e confini, e di qualunque tipo siano, da qualunque colore politico provengano, hanno il difetto infinito di ridurre i vari attori, individui o collettività che siano, a masse amorfe di cui si intravedono a malapena i confini (si parla di Terzo Mondo, ma da chi e cosa è formato? Cina e India fanno parte del Terzo Mondo? E l'Africa sub-sahariana?).

Un altro aspetto che Sen affronta, in entrambi i volumi, è un aspetto molto importante, legato alla costruzione delle identità uniche. Questa costruzione passa di solito per la re-invenzione della cultura, delle tradizioni e finanche della storia di un popolo, ed è tesa a costruire quell'idea di unicità e incontaminatezza che concorrono a determinare identità univoche. Non è la prima volta in questo secolo che si stravolgono la storia e la cultura di un popolo per costruire e re-inventarne un'identità nuova, unica e pura. E il ricordo di ciò che è accaduto dovrebbe metterci in guardia da ciò cui possono portare queste visioni semplificate del mondo e della Storia. «L'identità può anche uccidere, uccidere con trasporto» è l'ammonimento di Sen.

Riguardo questo aspetto, Sen esprime più volte, in L'altra India, la sua preoccupazione per come il movimento nazionalista Indù (Hindutva, rappresentato in parlamento dal partito bjp) faccia leva sui sentimenti di orgoglio nazionalista del popolo indiano e di come cerchi di mal interpretare e reinventare la storia indiana a proprio favore. Ma non è solo l'India ad affrontare questo problema: anche la politica nostrana ne sa qualcosa.

Parlando sempre dell'India, e andando più indietro nella storia, Sen rileva e mette in luce il perverso meccanismo con cui gli indiani hanno tentato, una volta raggiunta l'indipendenza, di darsi un'identità che fosse "contro" quella cultura occidentale e inglese che li aveva oppressi in tanti anni di giogo coloniale, e che vedevano evidentemente come espressione di un'identità aliena, che doveva per forza essere "altra" dalla loro. Così, se l'Occidente era -o si vantava di essere- scienza e raziocinio, l'India doveva valorizzare spiritualità e misticismo, in una costruzione identitaria fatta per contrasto e assolutamente paradossale. Un esempio particolarmente divertente, nella sua assurdità, è quello che Sen riporta in entrambi i volumi a proposito della funzione trigonometrica seno (sinus in latino): in India tale termine fu introdotto nel XIX importandolo direttamente dall'occidente, e come tale fu visto come l'ennesima invasione nella cultura locale, specialmente dai fautori dell'istruzione indigena, se non fosse che la parola sinus, per varie traversie storiche e geografiche di una globalizzazione premoderna, deriva proprio dall'indiano.

In modo analogo a quanto accade per le identità collettive, le identità individuali subiscono la spinta di queste visioni che marcano e inventano linee di confine e differenze: gli individui vengono appiattiti, e sono portati ad auto-appiattirsi, su un'unica identità. E' da questo appiattimento generale che nascono gli scontri. Ci si focalizza su un'unica dimensione dell'individuo -quella religiosa, di questi tempi- e la si utilizza come spiegazione per tutto, anche con i buoni intenti di trovare soluzioni e dialogo laddove vi è rottura; non ci rendiamo conto, ci ammonisce Sen, che così facendo si contribuisce in realtà ad esasperare le divisioni, perché si contribuisce attivamente all'idea che quella sia l'unica dimensione importante di una persona, anzi: l'unica dimensione esistente. Di fronte ai focosi scontri religiosi non dovremmo tanto chiederci quale sia la natura più autentica di una fede o dell'altra, perché è sempre un modo unidimensionale di inquadrare il problema; bisognerebbe invece cercare di rafforzare, ad esempio, le istituzioni e il senso di appartenenza civile degli individui.

E' percorrendo la ricca storia e cultura indiana in, e facendone uso sapiente, che Sen tocca l'altro punto fondamentale della sua esposizione, e ci ricorda quello che dovremmo sapere e mai dimenticare: che l'insularità culturale non esiste; che nessuno, in nessuna parte del mondo e in nessun tempo, può dirsi immune da contaminazioni culturali. Sarebbe stato un danno indicibile per tutta l'umanità se i nostri antenati si fossero chiusi in loro stessi. Certo, è sempre esistito chi faceva degli altri un nemico, a scopi politici o economici che fossero, ma è altrettanto vero che la discussione pubblica, il confronto e l'apertura sono i motori fondamentali che muovono l'umanità fin dai suoi primi passi. Illudersi del contrario, illudersi che siano problematiche moderne, è un coprirsi gli occhi che porterà il mondo solo più indietro, e non servirà a risolvere i tanti problemi che affiggono l'umanità. Ed è in tempi come questi, in tempi "globalizzati" in cui ognuno di noi è sempre più dipendente da una rete di miliardi di persone, che questa illusione è ancora più dannosa.

In Identità e violenza l'ammonimento e l'appello di Sen all'uso della ragione sono ancora più forti. Sen affronta l'argomento con la trattazione lucida e razionale che lo contraddistingue: con una solida fiducia nella ragione individuale, da illuminista qual è. Si potrebbero certo muovere alcune obbiezioni alla sua analisi: prima di tutto che una società non è una semplice somma di individui, per cui, se anche gli individui fossero razionali -cosa che non è scontata- non è detto che la società nel suo complesso si comporti in maniera razionale. L'identità di un gruppo non è una semplice somma di identità individuali. Questo aspetto viene lasciato un po' in disparte da Sen: si appella alla razionalità dell'individuo, al fatto che ognuno di noi è formato da identità molteplici, che non siamo unici e univoci e che possiamo in fondo scegliere la nostra identità, ma forse tralascia quello che una trattazione più ampia e più mirata al problema potrebbe analizzare: le influenze che la collettività ha sull'individuo. Sen assume che ognuno si possa razionalmente autodeterminare, e quindi autodeterminarsi come molteplice, ma se così fosse si assisterebbe ai fenomeni di costruzione identitaria collettiva di cui sopra? Il nodo centrale risiede forse nello stesso nodo che sta alla base del pensiero economico di Sen: l'individuo può in effetti darsi più di un'identità? Ha le possibilità di farlo, le capabilities? Se lo sviluppo è libertà, per citare un'altra famosa opera di Sen, si può affermare dunque che uno sviluppo che sia veramente tale, debba dare agli individui la libertà di essere unici e molteplici, di darsi più identità; per quanto il problema delle visioni "a blocchi" del mondo sia assolutamente trasversali, è certo che se un individuo non ha la possibilità di pensarsi in altra maniera sarà più fragile e più soggetto a costruzioni mono-identitarie.

Al di là di queste osservazioni, il richiamo di Amartya Sen alla razionalità comune a tutti gli uomini, il suo spostare il focus dell'osservazione sulla molteplicità di ogni persona invece che sulla sua univocità, è quanto mai necessario nel mondo sempre più interconnesso in cui viviamo. E' da qui che dobbiamo partire: dalla consapevolezza di essere unici eppure molteplici, dalla pratica del dialogo e del dibattito, dell'analisi critica, se vogliamo diventare, come ormai si sente ripetere da ogni parte -pure un po' vanamente- cittadini del mondo; attori e non spettatori di quella globalizzazione costantemente citata, criticata o osannata, ma indubbiamente presente.

Homo sum: nihil humani a me alienum puto. (Terenzio, Heautontimoroumenos)

Lucia Ferrone

Thursday, March 5, 2009

Unirsi o perire! Un governo federale per l'Europa

Dopo moltissimo tempo torno finalmente ad intervenire sul blog, girando la mozione che il Comitato Federale della Gioventù Federalista Europea ha approvato nella sua ultima riunione a Verona. Più che di un documento politico, si tratta di una riflessione a breve-medio e lungo termine sulla strategia dei federalisti europei, sulla crisi strisciante della civiltà (e della civilizzazione) occidentale e globale e sull'inedito contesto storico che abbiamo l'opportunità (unica) di raccontare giorno dopo giorno.


Unirsi o perire! Un governo federale per l'Europa

Non perdiamo l'occasione delle Elezioni europee del 2009

Il Mondo e l'Europa versano in una gravissima crisi economico-finanziaria che si è aggiunta a quelle, non meno gravi, energetica ed ambientale. Oltre lo spettro di una nuova, grandissima, depressione, si aprono però spazi per una nuova stagione politica cosmopolita e per l'adozione di soluzione sovranazionali innovative e coraggiose.

Gli stati europei hanno dimenticato la lezione delle guerre mondiali e lo spirito ideale che animava i primi passi del processo di unificazione; con lo sguardo rivolto al breve periodo e ai piccoli interessi nazionali si stanno pericolosamente muovendo in ordine sparso, ciascuno cercando di risolvere, temporaneamente e populisticamente, problemi di ordine globale e strutturale. In particolare, è il declino dell'ordine monopolare gestito dagli Stati Uniti a rendere inedita la situazione ed urgenti le soluzioni; ma la costruzione di un nuovo ordine multipolare non è un passaggio semplice e presenta molti rischi, primo fra tutti, di cui notiamo con estrema preoccupazione i segnali, il ritorno ad un miope protezionismo persino nell'ambito degli stati europei. Questi ultimi sarebbero i primi a pagarne conseguenze negative in un contesto di grandi potenze globali mentre, dotandosi della capacità di una risposta europea, avrebbero invece la possibilità di partecipare efficacemente alla gestione multipolare del processo di globalizzazione e di indirizzarla verso un modello democratico e regolamentato.

L'Unione Europea, che rappresenta il più avanzato esperimento di superamento della sovranità statale esclusiva al mondo, può e deve porsi come modello per l'unificazione delle grandi regioni del mondo, in vista dell'unità politica dell'intero genere umano. Questo esempio potrà essere fatto valere soltanto ad una condizione: l'UE deve completare la propria unificazione federale, dotandosi del potere adeguato per agire sullo scenario internazionale e per influenzare positivamente le dinamiche – economiche, politiche e culturali – più pericolose per lo sviluppo e la convivenza pacifica dell'umanità. È necessaria un'Unione più democratica ed un governo federale che sia in grado di dialogare con le altre aree del mondo, dimostrando i benefici ottenuti grazie non al diritto della forza, ma alla forza del diritto e di un modello sociale che coniuga la libertà ed il mercato con la solidarietà tra stati e tra cittadini.

Le prossime elezioni europee sono un appuntamento fondamentale, che l'Europa può sfruttare per tornare ad essere soggetto e non oggetto della storia, ma soprattutto per ridare un ruolo al voto dei propri cittadini; in caso contrario diventeranno l'ennesimo sprezzante schiaffo alla democrazia e a tutti gli europei, l'ennesima occasione sprecata. Per questo motivo la Gioventù Federalista Europea chiede:

- ai partiti europei di indicare il loro candidato alla guida della Commissione europea e inserire nel loro programma elettorale un chiaro impegno per rilanciare il processo costituente e istituire un governo federale tra i paesi dell'Unione europea che lo vorranno;

- ai candidati che si impegnino ad esercitare tutti i poteri di cui dispone già oggi il Parlamento europeo, in particolare quelli relativi all'approvazione del bilancio, alla nomina del Presidente della Commissione e al voto di sfiducia della Commissione, se gli impegni assunti di fronte agli elettori non verranno rispettati;

- ai governi nazionali l'impegno a riaprire – anche da parte di un'avanguardia di Stati – il processo di revisione istituzionale attraverso una convenzione costituente che abbia il mandato di redigere una Costituzione federale;

- a tutte le forze della società di recuperare la consapevolezza riguardo le finalità ideali del processo di unificazione europea, l'unica via possibile per realizzare un mondo più giusto e pacifico.

Senza una vera Federazione Europea i cittadini europei sono condannati all'impotenza. L'inadeguatezza degli stati nazionali aprirà la strada al populismo, alle politiche protezioniste e agli orrori che pensavamo cancellati dalla scena della storia. Esiste il rischio non trascurabile che la crisi economica e finanziaria in corso rappresenti il primo passo verso una crisi della democrazia in Europa ed il preludio della crisi strutturale – e morale – della civiltà contemporanea

Coloro che hanno a cuore il futuro dell'umanità non possono rassegnarsi di fronte alle scelte miopi della classe politica europea; le elezioni europee del prossimo giugno devono rappresentare il primo simbolo della reazione politica alla crisi globale, e la scelta definitiva tra i due destini possibili per l'Europa ed il Mondo: Unirsi o Perire!

Tuesday, January 20, 2009

Finalmente si parla di (con)Federazione tra Israele e Palestina

Da ResetDoc.org, finalmente un bell'articolo (nonostante la confusione terminologica fatta dalla Benhabib tra confederazione e federazione, il modello di governo al quale l'autrice si riferisce in realtà) che propone una via d'uscita cosmopolitica e post-nazionale al terribile conflitto - più che asimmetrico - tra Israele e Palestina. Come l'odio secolare tra gli Europei si è tramutato in un processo unico di positiva integrazione, lo stesso può accadere in Medio Oriente; basterebbe un po' di immaginazione, coraggio e prospettiva veramente politica.


Qual è il gioco finale di Israele?
Seyla Benhabib


Seyla Benhabib è professore di Scienze Politiche e Filosofia all'Università di Yale ed é Direttrice del programma di Etica, Politica ed Economia.

L'attacco militare israeliano alla Striscia di Gaza, dove vivono un milione e mezzo di palestinesi, è stato lanciato il 28 dicembre 2008, ultimo giorno di Hannukkah, la "Festa delle Luci". Hannukkah ricorda la rivolta degli antichi ebrei, guidati da Giuda Maccabeo, nel II secolo a.C., contro Antiochio IV Epifanio. La leggenda vuole che, durante la riconsacrazione del Sacro Tempio, dopo che la rivolta dei Maccabei l'aveva liberato da Antiochio, benché vi fosse olio sufficiente ad illuminare la menorrah soltanto per una notte, il candelabro rimase acceso per otto notti. Lanciando l'attacco su Gaza, i vertici dell'esercito israeliano erano consapevoli del potere evocativo che la scelta di tempo avrebbe avuto sull'opinione pubblica israeliana: ancora una volta, è la storia della resistenza contro un nemico del popolo ebraico. La minaccia alla sopravvivenza collettiva eroicamente sconfitta dal Ministro della Difesa Ehud Barak, il nuovo Giuda Maccabeo! La potenza di questi ricordi della sopravvivenza e della resistenza ebraica, unita alla determinazione, seguita all'Olocausto, perché "Mai più il popolo ebraico venga distrutto", costituiscono la sorgente emotiva di quel sentimento collettivo a cui i leader israeliani ricorrono quando sono sotto attacco.

Le considerazioni strategiche e quelle di Realpolitik dell'attuale azione militare a Gaza, tuttavia, sono abbastanza chiare: uno Stato, si dice, non può accettare che i propri cittadini siano sottoposti a continui e imprevedibili attacchi missilistici ed ha l' obbligo di difendere i propri confini e la popolazione. Scavando un po' più in profondità, tuttavia, si può notare che l'operazione di Gaza tenta di riaffermare la pretesa invulnerabilità militare di Israele, perduta in seguito alla guerra con il Libano del 2006. Nei prossimi mesi, inoltre, in Israele e nei territori palestinesi, si terranno le elezioni generali e sia l'attuale Ministro degli Esteri Tzipi Livni, del partito Kadima, che il Ministro della Difesa, Ehud Barak, del partito laburista, sono candidati alla carica di Primo ministro. Nulla di tutto ciò, tuttavia, spiega la ferocia e la sproporzionata brutalità dell'azione israeliana, la violazione del diritto umanitario internazionale e il possibile coinvolgimento in crimini di guerra. Perché?
Israele ha perso la propria visione politica e, oggi, le sue azioni sono dominate dalla forza militare, senza un chiaro disegno politico. E la forza militare, quando non è subordinata ad un obiettivo politico, è cieca e brutale.

Nessun leader israeliano possiede una visione politica, e con ciò non intendo una strategia di obiettivi a lungo termine, compressa tra due cicli elettorali e modificabile a seconda delle circostanze, ma una visione politica come quella che i fondatori di una repubblica si suppone debbano avere. In che modo resisterà questa nazione? Quali durature istituzioni potrà tramandare ai suoi figli e ai suoi nipoti nelle quali essi potranno essere liberi di prosperare come individui e come cittadini? Chi, oggi, ha una visione politica da proporre in previsione di un conflitto israelo-palestinese? Gli israeliani l'hanno certamente perduta. E i palestinesi, sebbene abbiano avuto a loro favore la forza della moralità e il vento della storia, sono stati ripetutamente sconfitti e traditi dalle gloriose nazioni arabe, sempre generose di retorica ma avare di azioni.

A partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, la visione politica palestinese si è ispirata al tier-mondisme (il terzomondismo) dei "miseri della terra", un progetto di modernizzazione nazionalista e statalista che ha mostrato i suoi evidenti limiti in occasione del sostegno offerto dalla leadership palestinese all'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Ricordo ancora il commovente articolo del compianto Edward Said, apparso sul New York Times nell'autunno 1992, nel quale egli riconosceva questa follia palestinese e descriveva con chiarezza la fine dell'ideologia di Fatah. Nel vuoto lasciato in tutto il mondo arabo dal crollo delle ideologie militari burocratiche occidentalizzanti e modernizzanti, hanno fatto irruzione le ideologie islamiche rappresentate da Hamas e da Hezbollah: il nuovo islamismo consiste in una visione autoritaria, purista e moralista ispirata dalla rivolta dell'Ayatollah Khomeini contro l'Occidente, una visione che ha conquistato influenza tra la popolazione palestinese, sia grazie alla violenta retorica sulla distruzione dello Stato ebraico che ai suoi programmi solidaristici e redistribuzionisti di aiuto comunitario e di carità islamica.

Hamas, come gli esordi del movimento islamico in Turchia e altrove in Medio Oriente, rappresenta una visione ugualitaria e redistribuzionista della solidarietà islamica che è anche profondamente autoritaria e illiberale. Negli anni Ottanta, Hamas era sostenuta da Israele in quanto alternativa alla più laica e combattiva Fatah, analogamente a come, in Afghanistan, gli USA avevano appoggiato Osama bin Laden e i Mujaheddin contro i più laici Fedayyin, di inclinazione socialista. In entrambi i casi, il genio è fuggito dalla bottiglia ed ora Israele, come gli Stati Uniti, è alle prese con il cambiamento delle alleanze da parte di Hamas e del più temibile Hezbollah, trasformatasi da un servizio sociale islamico ad una forma di militarismo islamista, passata da un sostenitore sunnita, come l'Arabia Saudita, agli ideologi sciiti iraniani. Non c'è nulla in questa costellazione che potrebbe far sentire a proprio agio e dare speranza ai progressisti. Il nostro impegno verso l'uguaglianza, l'autodeterminazione e la solidarietà dei popoli deve, dunque, rimanere un principio fondamentale e non può essere sacrificato alla cieca partigianeria in favore di un gruppo o di un altro.

La sicurezza di Israele in un mondo post-westfaliano

Qual'é allora il gioco politico finale di Israele? Israele sta lottando per una sicurezza westfaliana in un mondo post-westfaliano, in cui i confini sono diventati porosi e dove i germi, le notizie, le merci, il denaro e le persone viaggiano di più, più velocemente e in misura sempre maggiore. Tra l'Egitto e Gaza sono stati scavati dei tunnel che permettono di far entrare di contrabbando armi acquistate con denaro iraniano. In Medio Oriente circolano petroldollari provenienti da sceicchi corrotti e da regni del Golfo che cercano di tutelare le loro fragili dinastie e da un regime iraniano irredentista e irresponsabile retto da predicatori erranti e da uomini falsamente santi. Apparati difensivi ormai dismessi, provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche Sovietiche come il Kazakistan, il Kirgizystan e l'Arzebaijan, giungono nelle mani dei loro fratelli musulmani; senza dimenticare, naturalmente, i cinici mercanti di armi cinesi o i magnati russi, ben felici di piazzare la loro merce in quest'area.

E Israele finge di essere scandalizzata! Scandalizzata dal fatto che missili con una gittata che permette loro di raggiungere Israele, siano ora ammassati nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale. Scandalizzata che piccoli gruppi di militanti di Hamas lancino razzi montati su vettori mobili e poi nascosti tra la sfortunata popolazione civile. Ma tutto ciò è ipocrita e non spiega la violenta ritorsione messa in atto da Israele. Anche Saddam Hussein, durante la Guerra del Golfo, lanciò su Tel Aviv qualche debole missile Scud e adulti e bambini indossarono le maschere a gas e rimasero nei loro appartamenti ad aspettare che i missili cadessero. Israele sa, e lo sa da tempo, che il suo ipotetico scudo militare è stato violato da armi di sempre più nuova generazione. In questo nuovo mondo, a partire dall'11 settembre 2001, non esiste più una sicurezza assoluta e una totale invulnerabilità, ammesso che sia mai esistita . E' la consapevolezza di questa vulnerabilità a rendere Israele sempre più bellicosa nei confronti dei suoi vicini. Neanche il fatto di essere in possesso della bomba atomica rassicura Israele, non perché anche l'Iran potrebbe acquisirla, ma perché l'uso delle armi nucleari contro obiettivi che si trovano in Libano, in Siria, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Giordania, renderebbero invivibile la stessa Israele poiché le nubi radioattive si diffonderebbero in tutta la regione, contaminando l'acqua e la vegetazione.

Quattro visioni politiche

In Israele, molti dibattiti politici cercano di affrontare questa situazione, senza offrire tuttavia un nuovo progetto:
1- La prospettiva della guerra perpetua. Per quanto politicamente indifendibile, da parte di qualunque politico che si rispetti, questo è un atteggiamento psicologico che si sta diffondendo tra gli israeliani. Sono in molti a credere che la guerra diventerà un modo di vivere e che in Israele e in Palestina non ci sarà mai pace.
2- Liberali e progressisti di ogni genere, per contro, sostengono la soluzione dei due Stati, perché credono nel principio dell'uguale determinazione dei popoli. Altri ancora, l'accettano perché si preoccupano di ciò che chiamano "la ticchettante bomba demografica", rappresentata dall'elevato tasso di natalità palestinese, e perché non vogliono trovarsi ad essere una minoranza in uno Stato a maggioranza palestinese, sia esso o no democratico.
3- C'è poi la visione della Grande Israele fondata sulla fede religiosa, vale a dire, l'idea che le antiche terre della Giudea e dalla Samaria appartengono irrevocabilmente al popolo ebraico.
4- Quest'ultima visione va distinta dall'idea laica di una Grande Israele, che include i territori palestinesi, che deve essere governata attraverso accordi economici accettabili per entrambi, associando libero commercio e zone di sviluppo economico.

A partire dall'iniziativa di pace di Yitzhak Rabin e dagli accordi di Camp David, quella della "soluzione dei due Stati" è la linea politica ufficiale adottata sia dalle amministrazioni israeliane che da quelle americane. Tale soluzione, tuttavia, cela un nucleo ambivalente e, spesso, il significato recondito di tale formula affiora alla coscienza dell'opinione pubblica. La soluzione dei due Stati è stata largamente accettata non soltanto perché essa garantisce il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese ma anche perché essa prometteva il "disimpegno demografico". Improvvisamente, i demografi hanno sostenuto che se Israele avesse continuato ad occupare Gaza, la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme, avrebbe finito con l'esercitare il controllo militare su 5 milioni di arabi palestinesi, compresi quei cittadini israeliani che vivono all'interno dei confini di Israele del 1967.

Considerato l'elevato tasso di natalità palestinese, si è pensato che fosse a rischio la stessa natura ebraica di Israele, a meno di un disimpegno da Gaza e di una restituzione parziale dei territori. L'incubo di diventare minoranza all'interno di uno Stato che fu fondato proprio per proteggersi dal pericolo di essere trattati come cittadini di seconda classe, disprezzati, sfruttati, diffamati e sterminati, si è ripresentato. Improvvisamente, tutti i fantasmi dell'inconscio ebraico, dai pogrom cosacchi ai campi di sterminio nazisti, si sono risvegliati e la maggioranza della popolazione israeliana, per sfuggire a un tale incubo, ha sottoscritto gli accordi di Camp David e ha detto: "due Stati, uno accanto all'altro". Tuttavia, questa idea non è stata mai accettata da molti strateghi della Realpolitik israeliana né dai coloni. A partire dal 1967, il movimento dei coloni, che un tempo non era costituito che da un gruppo di fanatici sognatori che credeva nella "terra di Israele" (Eretz Israel), contrapposto allo "Stato di Israele" (Medinat Israel), si è trasformato in una massa eterogenea di militanti e di gruppi religiosi ben armati e ben finanziati.

Sono loro che, in una moschea di Hebron, hanno sparato contro i palestinesi durante le preghiere del venerdì ed è dalle loro fila che è venuto Yigal Amir, l'assassino di Yitzhak Rabin. Come gli assassini di Anwar Sadat, in Egitto, che appartenevano ai Fratelli Musulmani, questi sono gruppi che vivono in un'altra epoca, ascoltano le voci degli antichi dei, avvertono i fremiti di antiche guerre e obbediscono ad antichi miti. Essi restano una forza irredentista e pericolosa, sia per gli israeliani che per i palestinesi, e tenteranno di sabotare qualunque pace durevole nella regione perché la loro raison d'etre è la visione messianica di una lotta antica ed infinita. Il loro violento potenziale è manipolato anche da politici di entrambe le parti allo scopo di promuovere i propri miopi obiettivi.

Ma come la situazione dei palestinesi è stata sfruttata da regimi arabi corrotti per puntellare la propria incerta legittimità,così il movimento dei coloni è stato usato da ciniche élite israeliane allo scopo di promuovere la loro indeterminata visione di una Grande Israele laica. Vi sono ebrei inflessibili, attaccati alla terra, descritti in modo indimenticabile da Amos Oz nel suo libro In terra d'Israele, i quali sono stranamente progressisti quando si tratta di questioni di cooperazione economica e di sviluppo con i palestinesi. Questi uomini, che ricordano gli agricoltori bianchi della Rhodesia, gli intraprendenti allevatori di bestiame australiani o quelli del Sud Africa, vogliono controllare e valorizzare la terra di Israele/Palestina. Al contrario dei liberal, che si preoccupano "dell'anima dell'Israele democratica", loro sono più interessati ai "muscoli" della capacità economica e agricola di Israele. L'eroe della guerra del 1967, Moshe Dayan, apparteneva a questo gruppo, come vi appartiene Ariel Sharon . Per loro, purché i palestinesi siano tranquilli e fiorenti imprenditori capitalisti, purché valorizzino la terra, anziché distruggerla, la coesistenza è possibile. In anni recenti, i sogni di questo gruppo sono andati infranti quando una folla di palestinesi in preda all'ira ha distrutto tutte le belle serre costruite a Gaza dagli israeliani per esportare in tutto il mondo rose, pomodori e avocado.

La collera palestinese, che si è manifestata con la distruzione della proprietà, è stata interpretata da questo gruppo, e da molti padroni coloniali prima di loro, come l'incapacità dei nativi a lavorare duramente, a difendere la proprietà e ad aggiungere valore al capitale. L'attuale operazione militare a Gaza contiene elementi di tutte e quattro le visioni ed è per questa ragione che essa è incoerente con i suoi intenti: Israele vuole occupare di nuovo Gaza e costruire serre che saranno distrutte ancora una volta? Intende distruggere, una volta per tutte, Hamas e le sue istituzioni militari e civili e poi uscire da Gaza in previsione di una soluzione dei due Stati che, a quel punto, sarà difficilmente praticabile? Oppure Israele vuole rioccupare Gaza e mettere al sicuro le sue truppe e commettere potenziali crimini di guerra contro la popolazione palestinese? Nessuno lo sa con certezza.

Come il Tibet e la Cina?

Nella situazione attuale, esistono dunque alternative autenticamente politiche e non semplici strategie militari spacciate per visioni politiche? In Israele c'è un movimento per scindere la cittadinanza israeliana e l'identità etnico-religiosa ebraica in modo che Israele possa diventare la terra di tutti i suoi cittadini. Ciò comporterebbe l'abbandono totale o parziale della Legge del Ritorno che garantisce ad ogni ebreo, riconosciuto come tale da un'autorità rabbinica, il diritto alla cittadinanza israeliana. Fino a pochissimo tempo fa, la legge israeliana sulla cittadinanza non era stata riformata e molti lavoratori immigrati, i loro figli, così come i coniugi non ebrei, non potevano ottenere la cittadinanza.

Paradossalmente, negli ultimi dieci anni, è diventato più facile diventare cittadino israeliano ad un russo che si dichiara ebreo che a un arabo palestinese nato e cresciuto nella parte orientale di Gerusalemme, perché quest'ultimo sarà considerato un rischio per la sicurezza e perché lo status di quella zona è ancora incerto in termini di accordi internazionali. Per quanto importante, questa visione corre il rischio di trasformarsi in una sorta di benevolo imperialismo, in particolare laddove chiede che la cittadinanza sia estesa fino ad includere i palestinesi che vivono in quei territori occupati il cui status, in considerazione dell'assenza di un esauriente trattato di pace, è indefinito.

Qualsiasi ponderata riflessione politica su Israele e sulla Palestina deve fondarsi sulla premessa che la forza militare è un deterrente sempre più opinabile e che non sono le armi, ma gli uomini, a concludere la pace. La pace è un bene collettivo. Israele è intrappolata in un modello di sovranità westfaliano che ipotizza che lo Stato abbia il controllo su tutto ciò che si trova all'interno e lungo i suoi confini. Le democrazie più avanzate sanno che le cose non stanno più così, né dal punto di vista normativo né da quello empirico. La sovranità è un insieme di privilegi e prerogative statali che possono essere condivisi, delegati ed esercitati congiuntamente ad altri gruppi e ad altri poteri. Molti, tra i leader israeliani, sanno che non permetteranno mai alla Palestina una piena sovranità sullo spazio aereo, sia a Gaza che in Cisgiordania, né sul libero transito di beni dentro e fuori i porti di Gaza, che costituirebbero l'unico accesso al mare di un futuro Stato palestinese, e che Israele non rinuncerà al controllo delle riserve idriche sotterranee che si estendono in entrambe le parti dei territori del 1967.

Dunque, perché fingere che uno Stato palestinese sarà sovrano nel senso in cui Israele intende la propria sovranità? La triste e semplice verità è che quello Stato palestinese sarà eternamente intimorito, controllato, sorvegliato e, occasionalmente, colpito da Israele. E' proprio perché molti di coloro che sostengono la soluzione dei due Stati sanno anche che le loro relazioni future con lo Stato palestinese assomiglieranno più a quelli che intercorrono tra Tibet e Cina o tra India e Kashmir che non a quelli tra Austria e Italia che molti politici israeliani sostengono a parole questo ideale, mentre in concreto fanno di tutto perché quella soluzione sia sempre meno probabile.

Supponiamo una confederazione

Supponiamo che in Israele-Palestina vi sia una confederazione. Immaginiamo che la neutralizzazione di gruppi come Hamas ed Hezbollah, che non riconoscono l'esistenza dello Stato di Israele, sia l'obiettivo comune di palestinesi e di altre nazioni arabe ma anche che, nel caso in cui Hamas riconoscesse il diritto di Israele ad esistere, avrebbe un posto al tavolo delle trattative; supponiamo che vi sia un controllo esercitato congiuntamente da un'autorità israelo-palestinese sullo spazio aereo, su quello marittimo e sulle acque; immaginiamo che ci sia una valuta comune e una disciplina comune dei diritti relativi agli insediamenti di ogni gruppo etnico in alcune parti del territorio comune. Israele non dovrebbe affrontare una guerra civile contro i coloni fanatici a Hebron e in Cisgiordania i quali, a quel punto, dovrebbero vivere sotto il governo di un'autorità palestinese regionale oppure tornare in Israele. Israele, tuttavia, non dovrebbe difendere le loro terre rubate grazie alle incursioni nel territorio palestinese.

I palestinesi non dovrebbero fingere che il bantustan di Gaza possa in nessun senso far parte di uno Stato palestinese. Gaza sarebbe invece una regione autonoma all'interno di una confederazione congiunta tra Israele e Palestina. A Gaza e in Cisgiordania si terrebbero le elezioni per l'amministrazione municipale e il governo regionale, in conformità con un accordo che definisca con chiarezza la condivisione del potere tra le due regioni e con Israele. Una confederazione non significherebbe la scomparsa dell'organizzazione nazionale collettiva e dell'identità di ciascun popolo: all'interno di una qualche versione dei territori precedente al 1967, vale a dire la Linea Verde, Israele rimarrebbe uno Stato ebraico, con la sua lingua, le sue festività e le sue elezioni, ma condividerebbe il potere con lo Stato palestinese in materia militare, di sicurezza, di intelligence, in campo valutario e commerciale.

Allo stesso modo, i palestinesi manterrebbero la loro lingua, le loro festività e le loro elezioni, ma i due popoli elaborerebbero alcuni programmi scolastici comuni, specialmente nell'insegnamento della storia, che facciano giustizia delle verità storiche e delle sofferenze di entrambi i popoli. I figli di una nuova generazione imparerebbero a coltivare una reciproca solidarietà, anziché un reciproco odio. In tale confederazione vi sarebbe una qualche perequazione dei diritti socio-economici e del diritto allo stato sociale, in modo che non tutti desiderino trasferirsi nelle più ricche province israeliane. Il pluralismo religioso e i diritti civili sarebbero rispettati in egual misura per ebrei, musulmani, cristiani e per coloro che seguono altre fedi. Per gli osservanti religiosi che vogliono che le loro questioni personali siano amministrate dalle autorità religiose vi sarebbero tribunali religiosi facoltativi ma, per garantire pari diritti civili e politici, vi sarebbe anche una Carta dei Diritti.

Se posso spingere il mio sogno ancora oltre, direi che questa confederazione potrebbe diventare il nucleo di una Unione Medio Orientale dei Popoli, in cui la Turchia, l'Egitto, l'Arabia Saudita, la Giordania e molti altri Stati potrebbero associarsi sul modello dell'Unione europea. A coloro che mi accusano di volermi sbarazzare dello Stato di Israele, così come avevano contestato Tony Judt, quando alcuni anni fa osò avanzare alcune di queste proposte sul New York Review of Books, vorrei chiedere: quali alternative avete da proporre al popolo israeliano e a quello palestinese oltre alla guerra perpetua o al progetto imperiale di una Grande Israele laica o religiosa? Se volete che Israele conservi la sua anima di Stato liberal-democratico e preservi la propria identità ebraica senza razzismo, discriminazione e guerra contro un altro popolo, abbiate il coraggio di guardare oltre la visione ormai obsoleta dello Stato westfaliano. Francia, Italia, Germania non sono scomparse all'interno dell'Unione europea, casomai é il contrario: le loro attitudini di governance e la loro capacità di assicurare pace e benessere ai propri popoli sono state potenziate. Una confederazione repubblicana composta dal governo israeliano e da quello palestinese risponde sia alla realtà della accresciuta interdipendenza che si sta creando tra Israele e la Palestina che alla necessità di offrire benessere e stabilità per il futuro. La tragedia di Gaza dovrebbe portare con sé una nuova visione della politica.

(Traduzione di Antonella Cesarini)

13 Jan 2009