Saturday, December 20, 2008

Gli Animal Spirits della Network Society


Nei vari post ho sottolineato più volte il fatto che ogni evento, per quanto critico, debba essere osservato sotto la doppia lente della minaccia e dell'opportunità. In un mondo dinamico e complesso, plurale e "politeista", ogni catastrofe (per usare l'accezione di R. Thom) può aprire nuove strade, nuove possibilità prima inesplorate; allo stesso modo ogni novità positiva può nascondere insidie ed evolversi secondo percorsi perversi e distorti.

Per questo motivo mi è sembrata significativa ed interessante l'idea alla base di Animal Spirits, l'ultimo libro di Matteo Pasquinelli (media-attivista, animatore della ml rekombinant, ricercatore ad Amsterdam e a Londra); la rete -- e più in generale la filosofia dei "creative commons" -- non è soltanto lo spazio di nuove forme di democrazia, informazione e ricombinazione creativa, sperimentazioni di condivisione e produzione libera. Dietro la retorica della "free culture" si nascondono insidie e "mostri", che si appropriano e trasformano in continuazione le nuove idee e le inedite logiche che emergono dalla real-time society globale fondata su internet (qui non trattiamo di altri problemi connessi con internet, come il digital divide).

Dalla decrizione del libro: After a decade of digital fetishism, the spectres of the financial and energy crisis have also affected new media culture and brought into question the autonomy of networks. Yet activism and the art world still celebrate Creative Commons and the 'creative cities' as the new ideals for the Internet generation. Unmasking the animal spirits of the commons, Matteo Pasquinelli identifies the key social conflicts and business models at work behind the rhetoric of Free Culture. The corporate parasite infiltrating file-sharing networks, the hydra of gentrification in 'creative cities' such as Berlin and the bicephalous nature of the Internet with its pornographic underworld are three untold dimensions of contemporary 'politics of the common'. Against the latent puritanism of authors like Baudrillard and Zizek, constantly quoted by both artists and activists, Animal Spirits draws a conceptual 'book of beasts'. In a world system shaped by a turbulent stock market, Pasquinelli unleashes a politically incorrect grammar for the coming generation of the new commons.

Le opportunità create dalla network-society nascondono minacce, in una tensione irriducibile tra la forza formalizzante di coloro che tentano di inquadrare le novità dentro gli schemi esistenti di potere (si veda il controllo delle multinazionali su internet, lo spam, la capacità potenziale di Google di determinare la realtà -- "se non sei su Google non esisti" --, oltre alle dinamiche di controllo sulle identità e sui corpi esercitabili grazie all'ingente massa di informazioni private in circolazione), e la spinta creativa di coloro che hanno trovato nella rete e nelle sue nuove "regole del gioco" lo spazio per sperimentare nuove forme di socialità, partecipazione, formazione, vita.

Friday, December 19, 2008

Cecco d'Ascoli

Non può morir chi al saver s’è dato,
Né vive in povertate né in difetto,
Né da fortuna può essere dannato;
Ma questa vita e l’altro mondo perde
Chi del savere ha sempre dispetto
Perdendo il bene dello tempo verde.
Chi perde il tempo e virtù non acquista,
Com’più ci pensa, l’alma più sattrista.

I dilemmi della crisi

Ouverture: sui dilemmi e sulla crisi

La crisi genera dilemmi, perché l’incertezza e il disorientamento rendono plausibili nuove strade da seguire, mai percorse o finora semplicemente evitate. L’attuale sconvolgimento che va sotto il nome di crisi, prima finanziaria, poi economica, infine -- plausibilmente -- valutaria (è sufficiente vedere ciò che accade giorno dopo giorno alla sterlina inglese, in piena spirale svalutativa), è stata correttamente definita una “once-in-a-lifetime crisis”, a sottolineare la componente di cambiamento strutturale che l’accompagna. Non c’è contingenza in questa crisi, ma soltanto trasformazione radicale, transizione da un disordinato ordine mondiale ad un nuovo, forse più -- forse meno -- caotico ordine globale.

La crisi genera dilemmi e paradossi, quando gli effetti collaterali vengono additati come le cause prime del “terremoto”, dai global imbalances estremi alla de-regolazione (e mal-regolazione) scellerata, mentre le cause prime vengono messe da parte come effetti collaterali, sciocchezze delle quali non curarsi, dalla transizione verso una nuova “egemonia” asiatica, all’impossibilità di perpetuare un modello di società basata sulla chiusura culturale, sull’insostenibilità ambientale, sul consumo sfrenato e sugli idrocarburi, sulla concezione positivista di un progresso e di una crescita emancipatrice e senza limiti.

La crisi genera dilemmi e regresso intellettuale, quando la risposta al tracollo di un sistema fondato sul tentativo di estendere il “mercato” ad ogni fase, ad ogni momento e ad ogni aspetto della vita umana -- compresi i sentimenti, il patrimonio genetico, l’immaginazione -- è basata essa stessa sulle logiche del mercato. La stessa pochezza politica e morale si ritrova dal lato opposto del pendolo che oscilla fra mercato e stato, nel campo della “pianificazione”: crisi diventa la parola chiave per il “potere senza potere” nazionale e si tramuta nel grimaldello per scardinare ogni diritto, per eliminare ogni “sapere assoggettato”, per annullare ogni dominio delle regole condivise, per riportare in auge il dominio del sospetto, del populismo, della violenza “giusta”, per imporre l’unica verità possibile.


Chiusura: un valzer dell’inconsistenza

La crisi che stiamo vivendo è una danza su di una splendida barca che affonda, è una crisi dei corpi e delle menti, è un rilassato oblio di inconsapevolezza che si muove sulle note di un valzer dell’inconsistenza, un oblio quasi completamente ignaro delle voci delle poche cassandre attente, rivoluzionarie e cosmopolite. In ballo non c’è il capitalismo, che sulle proprie contraddizioni, catastrofi e rivoluzioni fonda la propria forza e persistenza, ma soltanto il capitalismo come lo conosciamo oggi; in ballo non ci sono solamente le conquiste sociali di secoli di lotte. Nel grande gioco della crisi è in ballo la capacità della politica di suggerire una direzione, anche se plurale e politeista, alla comunità umana, nonché la possibilità della politica stessa di tornare ad essere lo strumento principale che gli uomini si sono dati per governare il conflitto e condividere il potere.

Dopo la crisi, il governo sarà ancora la più grande riflessione sulla natura umana, come diceva Madison, uno dei padri del federalismo americano? Saremo in grado di non soccombere di fronte a noi stessi e alle nostre creazioni, uniche vere minacce alla Pace Perpetua? Riusciremo a scardinare i duri sedimenti istituzionali, culturali ed economici che oggi ci offuscano la vista e rendono il mondo una grande “fiera delle non-vanità”? Saremo in grado di sfruttare appieno la logica aperta della nostra creatività, i campi inesplorati del nostro sapere e della nostra fantasia, per trovare nuove strade, nuove forme e nuovi spazi di ampio respiro per l’agire politico?

Tra il rischio di un olocausto nucleare e quello di un suicidio ecologico, l’umanità può ancora dimostrare che la sua intelligenza superiore non è un errore dell’evoluzione (E. Mayr) e che la politica non è ormai soltanto un triste valzer dell’inconsistenza, perché è senz’altro vero che in ogni momento di crisi si nascondono le premesse e le opportunità per creare un mondo migliore. Come suggerisce il poeta Hölderlin, là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che si salva.

Wednesday, December 3, 2008

Connettere il patrimonio culturale, ma senza l'Italia


Un breve post per segnalare un fatto interessante: poco dopo il suo lancio ufficiale, Europeana, la grande biblioteca-museo-archivio virtuale e comune per tutti cittadini europei, ha visto chiudere il proprio sito. Il motivo? Nessun attacco hacker, nessun malfunzionamento tecnologico, nessuna interruzione di fondi da parte dell'Unione Europea, ma soltanto un grande crash dei server dovuto alla troppe visite, stimate nell'ordine di 10 milioni di accessi singoli all'ora. Dal sito del progetto: "popularity brings down the site - We launched the Europeana.eu site on 20 November and huge use - 10 million hits an hour - meant it slowed to a crawl. We are doing our best to reopen Europeana.eu in a more robust version." Un vero successo per tutti i sostenitori dell'Europa, della cultura e della "Repubblica delle Idee"!

Allo stesso tempo un commento sul blog "Europe" di Andrea Bonanni (Repubblica.it) ci offre una prospettiva più politica o, se vogliamo, più demoralizzante, legata all'affaire Europeana; di seguito una citazione del suo post:

Il ministro per le politiche comunitarie, Andrea Ronchi, ha lanciato un perentorio monito alle istituzioni europee sull'uso della lingua italiana (www.politichecomunitarie.it): costituito una task force che vigila sui siti comunitari…segnalateci siti comunitari senza la nostra lingua laddove questo risulti effettivamente penalizzante. Tutte le informazioni saranno raccolte in un dossier che servira' a rafforzare le nostre rivendicazioni>. Lo accontentiamo subito. La Commissione ha appena lanciato Europeana [...] [...] Ebbene, nella lista delle novanta istituzioni europee che partecipano all'iniziativa non c'è una biblioteca italiana, non un centro di ricerca o una rappresentanza nazionale italiana. Ci sono tutte le librerie nazionali (perfino quella dell'Islanda e del Liechtenstein) tranne quella italiana. Gli unici siti italiani presenti sono la Fondazione Federico Zeri, il museo di storia della scienza di Firenze e l'istituto per i beni artistici e culturali dell'Emilia Romagna. Istituzioni di prestigio, d'accordo, ma che non rendono certo l'idea del peso della cultura italiana nella creazione di una identità europea. L'assenza di istituzioni culturali che dipendono direttamente dallo Stato italiano è a dir poco scandalosa, soprattutto da parte di un governo che rivendica orgogliosamente i meriti della nostra cultura e della nostra lingua.

Tuesday, December 2, 2008

Sui rischi e sulle opportunità: dalla crisi finanziaria alla finanza islamica, fino al ruolo della Cina


Non è così banale riuscire a vedere in ogni rischio anche un'opportunità. Eppure questo è ciò che accade continuamente in tutto il mondo, specialmente in questi anni di transizione. Quando le crisi colpiscono in modo "non democratico" e non omogeneo a causa delle asimmetrie che nascono sui terreni della politica, dell'integrazione economica, della geografia e del declino egemonico, le prospettive ed i punti di vista si moltiplicano in un'esplosione caleidoscopica di ricchezza interpretativa della realtà.

Primo esempio: la crisi finanziaria che continua a soffocare il "turbocapitalismo" occidentale apre prospettive molto interessanti per la finanza islamica. Quest'ultima, con le sue regole stringenti, l'impossibilità di creare denaro dal denaro e la stretta connessione con le attività produttive materiali potrebbe elevarsi a modello da imitare per ricondurre la bolla finanziaria entro i binari della sostenibilità economica, sociale e ambientale, suggerendo le nuove regole del gioco dell'economia internazionale (Loretta Napoleoni, nel suo libro "Economia Canaglia" - ed. il Saggiatore, 2008 - suggerisce che i valori fondativi di un nuovo ordine globale vanno cercati proprio nella finanza islamica).

Così, mentre un Islam da sempre identificato con il radicalismo ha l'opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" (come direbbero Rajan-Zingales), il modello più occidentalista, quello americano, rischia di franare su sè stesso a causa di scelte politiche e non dal sapore molto "religioso". Joseph Stiglitz riassume in modo intrigante il declino, l'"immoralità" statunitense e l'irresponsabilità nei confronti del mondo intero non attraverso i sette vizi capitali, quanto piuttosto attraverso la miopia e il conservatorismo disciolti nei sette deficit capitali (altro che i deficit gemelli delle teorie macroeconomiche!): il deficit dei valori, il deficit del clima, il deficit dell'uguaglianza, il deficit della responsabilità, il deficit del commercio, il deficit del bilancio ed infine il deficit degli investimenti.

Secondo esempio: capovolgendo quando detto finora, là dove gli occidentali vedono un'opportunità, altri paesi - la Cina in particolare - vedono, se non un rischio, comunque un avvenimento non troppo rilevante. Il successo di Barack Obama è in questo senso emblematico: simbolo della vittoria della democrazia, degli ideali e della passione, nonché promotore dell'idea che una speranza ed un cambiamento di natura quasi "universale" siano possibili, la vicenda del neo-presidente eletto americano è quasi assente dal dibattito politico cinese; segno di una emergente autonomia politica e intellettuale cinese, oltre che del crescente fastidio asiatico verso il western globalism di un'America ormai in ritirata? Come osserva su ResetDoc Daniel Bell, professore di teoria politica all’Università Tsinghua di Pechino, in Cina, riguardo l'elezione di Obama, la popolazione

... sembra sorprendentemente indifferente. Sui siti web, ci sono pochi dibattiti che riguardano la politica americana e la gente sembra più interessata a parlare dei negoziati tra la Cina e i leader di Taiwan. Sì, i risultati elettorali americani sono stati trasmessi dalla televisione di Stato cinese senza alcun evidente pregiudizio – come accadde invece quattro anni fa – ma questo significa semplicemente che il regime ha meno da temere dall’esempio americano. Nel 2004, l’invasione dell’Iraq era ancora fresca nella mente dell’opinione pubblica e gli Stati Uniti erano messi in relazione più con le aspirazioni egemoniche che con gli ideali democratici. Oggi, il tracollo finanziario ha riabilitato la critica marxista al capitalismo e le lotte “sovrastrutturali” per la leadership politica non suscitano grandi passioni.

In aggiunta a quanto detto finora, la crisi finanziaria rappresenta per la Cina una grande sfida (aumenta la disoccupazione, diminuisce la crescita) ma anche l'opportunità per emergere definitivamente come nuova iperpotenza globale. Tralasciando il dibattito sulla possibilità di un futuro ordine multipolare fatto di molti centri e di molte periferie piuttosto che di una sola potenza egemone, è chiaro che oggi l'equilibrio precario dell'economia mondializzata si regge sulle spalle dei cinesi: dalla produzione a basso costo al finanziamento degli agonizzanti consumi americani, la Cina tiene le redini del capitalismo e, potenzialmente, potrebbe stringerle ancora di più. E' certamente vero che in questi casi non sempre il "creditore" è colui che vince,nel grande gioco delle relazioni internazionali, ma lo squilibrio esistente oggi non potrà durare a lungo e, come dice giustamente Romano Prodi sul Messaggero del 30 novembre u.s., se prima solo il capitalismo poteva salvare la Cina (quella di Deng Xiaoping e dell'"arricchirsi è onorevole"), adesso è solo la Cina che può salvare il capitalismo.

Forse la familiarità di quest'ultima frase rispetto a quanto detto precedentemente sulla finanza islamica e sulla sua opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" non nasce a caso: il mondo ha bisogno di nuove idee, nuovi punti di vista e nuove prospettive per uscire dal vicolo cieco della crisi e per tornare a vedere delle opportunità là dove oggi regnano soltanto rischi e paure. Ed è un peccato che l'Europa continui senza vergogna a vantarsi del proprio status di "autismo politico" nel momento in cui tutto il mondo avrebbe bisogno di un'Unione democratica e decisa, sicura ed aperta, una Federazione Europea capace di dare un nuovo slancio al lungo e difficile viaggio dell'umanità verso un futuro di Pace Perpetua.

Tuesday, November 18, 2008

La Cosmopolis e il Politeismo dei Valori


Sul numero di novembre della rivista "The Federalist Debate" ho pubblicato un breve essay dal titolo "Federalism and Polytheism of Values"; di seguito spiego brevemente (e integro) l'idea ed il ragionamento alla base dell'articolo.

Come si concilia la necessità di un governo mondiale, capace di dare un indirizzo politico alla globalizzazione (necessità sempre più palese dopo la crisi finanziaria e prima della crisi ecologica che arriverà), con l'obbligo morale di salvaguardare la pluralità delle culture, l'universo dei fini assiologici e delle filosofie della storia che ogni comunità elabora in base alla propria evoluzione, ai propri costrutti linguistici, alle influenze dell'ambiente e della geografia?

Dato che ogni cultura, per quanto piccola, debole o periferica, non subisce mai passivamente i tentativi egemonici e universalistici promossi dal "centro" ma adotta sempre e comunque un atteggiamento di reazione e ricombinazione sincretica e creativa delle istanze di novità (anche se imposte), probabilmente il modo migliore per far nascere un governo mondiale quanto più condiviso e condivisibile è quello di concentrarsi soltanto sui meccanismi istituzionali, sul progetto architettonico ancora da riempire di contenuti valoriali. Quali istituzioni possono creare un framework generale di co-abitazione, "indossabile" senza costrizioni da realtà differenti?

A mio avviso il Federalismo mondiale (World Federalism), inteso come modello di governo multi-livello basato sulla sussidarietà, è forse l'unica forma organizzativa capace di far coesistere l'uno ed il tutto, il generale ed il particolare, imbrigliando la complessità in una rete istituzionale che non annulli le affascinanti e molteplici forme attraverso le quali ogni comunità umana ha provato a rappresentare sè stessa e l'"altro".

La Federazione mondiale non vedrebbe la luce sulla base di un qualche valore generale o di un fine condiviso della storia, quanto piuttosto per motivi molto meno nobili: sarebbe uno strumento funzionale alla risoluzione di problemi globali, che devono essere affrontati dal "global village" all'unisono, pena l'estinzione dell'intero genere umano. Per evitare un olocausto nucleare e/o ecologico (che questa volta non risparmierebbero nessuno, complici l'integrazione economica e la pervasività della tecnologica a scala planetaria) servono alcuni, limitati, beni pubblici globali (global public goods): la Pace (impossibilità di conflitto), regole per il mercato, strumenti per lo sviluppo sostenibile e l'equità, un sistema monetario che non incarni la volontà di una singola iperpotenza, accesso libero ai beni comuni (acqua, aria, energia).

Il cantiere della riflessione sulle modalità politiche capaci di connettere il globale al locale in modo democratico, plurale e non-totalizzante è ancora aperto; quali sarebbero i micro-fondamenti della proposta di una federazione mondiale (ovvero, sulla base di quale legittimità si reggerebbe, a parte la consapevolezza di problemi comuni per tutta l'umanità)? Come sfruttare al meglio la teoria delle reti, l'analisi dei sistemi, la filosofia politica e morale, il "mechanism design", l'economia, l'antropologia ecc. per raffinare la proposta istituzionale? Detto questo, il pensiero e l'azione restano due campi - strettamente connessi - che seguono logiche diverse: se la teoria va avanti a formulare proposte e possibilità sempre migliori e più complesse, la nostra azione quotidiana non può invece attendere l'esito del perfezionamento teorico: battersi per la federazione mondiale, per la Pace Perpetua, per le istituzioni di un mondo più giusto, è l'unico modo per ridurre quella contraddizione fra fatti e valori che fa di noi dei militanti.

Thursday, November 13, 2008

Threats and Opportunities of a "Bretton Woods" number II


In vista della riunione del G20 di sabato prossimo, ho pubblicato un nuovo articoletto su Eurobull.it, dal titolo "Una Nuova Bretton Woods, ma solo se...", nel tentativo di mettere in evidenza non solo le opportunità, ma anche i rischi impliciti nella proposta, ormai sulla bocca di tutti, di una possibile riforma delle regole del gioco dell'economia e della finanza mondiale. Affinchè le riforme, sopratutto se di portata globale, siano veramente una boccata d'aria e "un nuovo inizio", è necessario aver ben chiari quelli che sono ad oggi gli equilibri di potere e la forza relativa di ogni attore in gioco i quali, come è accaduto nella conferenza originale di Bretton Woods, tenteranno di far oscillare dalla propria parte la lancetta dei guadagni, della visibilità e dei risultati.

Una piccola aggiunta all'articolo: come sempre i capi di stato e di governo dei paesi occidentali, sostenitori indefessi della conservazione, proveranno a mascherare l'immobilismo e l'incosistenza delle loro proposte come un velo di mediaticità rivoluzionaria, perseverando ancora una volta nell'impossibile tentativo di andare avanti restando completamente fermi. Ma se anche la Cina deve richiamare in patria il proprio ministro della finanza Xie Xuren, impegnato in una conferenza in Perù, per risolvere problemi economici (Nov. 7 - Bloomberg - China's Finance Minister Xie Xuren was called back from an international economic conference in Peru before the meeting began, following orders from Beijing to help resolve problems at home, an organizer of the event said...), questo è forse il momento per iniziare a pensare seriamente a delle possibili soluzioni alla crisi. Una crisi che non è solo della finanza, ma che riguarda intimamente la struttura della comunità internazionale, il ruolo degli stati, la sproporzione della dimensione produttiva rispetto a quella delle possibilità di controllo (democratico e non), la capacità dei cittadini di reagire alle sfide dell'ecologia, della convivenza multiculturale, dell'autocontrollo del consumo sfrenato e senza senso.

Wednesday, November 12, 2008

Il ritorno dell'intelligenza

Segnalo un pezzo di questo interessante articolo di Nicholas D. Kristof, apparso ieri su Repubblica (tradotto dal New York Times) e dedicato (come la gran parte degli articoli degli ultimi giorni) ad Obama. La prospettiva questa volta è però più "intelligente", e sottolinea come l'elezione del primo presidente afroamericano rappresenti anche la fine di una politica apertamente populista e anti-intellettuale.


"[...] non possiamo risolvere le sfide dell'istruzione se, secondo le statistiche, gli americani credono all'evoluzione tanto quanto ai dischi volanti, e quando un quinto di essi crede fermamente che sia il Sole a girare intorno alla Terra. Quasi la metà dei giovani intervistati per un sondaggio nel 2006 ha dichiarato che non è necessarío conoscere l'ubicazione dei Paesi nei quali si verificano avvenimenti importanti: ciò sarà sicuramente di sollievo a Sarah Palin, che secondo Fox News pensava che l'Africa fosse un Paese e non un continente.

Probabilmente John Kennedy è stato l'ultimo presidente a non vergognarsi della propria intelligenza e del fatto di aver nominato a far parte dei proprio governo le menti migliori dell'epoca. In tempi a noi più recenti, abbiamo avuto alcuni presidenti brillanti e colti che hanno fatto di tutto per tenere nascoste le loro qualità. Richard Nixon è stato un intellettuale che nutriva odio verso sé stesso, mentre Bill Clinton ha tenuto nascosto il suo fulgido ingegno dietro agli aforismi popolari sui maiali. Quanto a Bush, ha adottato l`anti-intellettualismo come vera e propria politica dell'Amministrazione, respingendo ripetutamente il contributo di persone competenti (dagli esperti di Medio Oriente ai climatologi più accreditati, agli studiosi della riproduzione). Bush è brillante nel senso che si ricorda fatti e facce: nondimeno non credo di aver mai intervistato nessuno che apparisse altrettanto disinteressato nei confronti di qualsiasi concetto.

Nella politica americana è almeno dai tempi della campagna per la presidenza di Adlai Stevenson negli anni Cinquanta che è uno svantaggio apparire troppo colti. Essere riflessivi equivale a essere considerati imbranati. Prendere decisioni con attenzione significa essere dei pappamolle. (Certo, non giova sapere che gli intellettuali sono spesso tanto pieni di sé quanto di idee. Si racconta che dopo un discorso molto profondo, un ammiratore tra la folla gridò a Stevenson: «Lei avrà il voto di ogní americano in grado di pensare!» e che Stevenson di rimando gli abbia detto: «Non mi basta: mi serve una maggioranza»). .

Ma i tempi forse stanno cambiando. Come potremmo spiegare altrimenti l'elezione nel 2008 di un professore di legge che ha studiato in un'università dell'Ivy League e che ha la sua lista di filosofi e poeti preferiti? [...]

James Garfield era in grado di scrivere simultaneamente con una mano in greco e con l'altra in latino; Thomas Jefferson fu uno studioso e inventore straordinario; John Adams era solito portarsi sempre appresso un libro di poesia. Ciò nonostante, furono tutti surclassati da George Washington, uno dei meno intellettuali tra i nostri primi presidenti.

Malgrado ciò, mentre Obama si accinge a trasferirsi a Washington, auspico con tutto il cuore che la sua fertile mente possa introdurre un nuovo modo di essere nel nostro Paese. Forse verrà presto il giorno in cui i nostri leader non dovranno più sentirsi in imbarazzo e in preda alla vergogna quando si scoprirà che hanno un cervello in testa."

Monday, November 10, 2008

Le mancanze della Sustainomics

Recentemente ho avuto l'occasione di ascoltare, ad un convegno organizzato dalla Provincia di Venezia e dal World Political Forum di Mikhail Gorbachev, l'intervento di Mohan Munasinghe, vice-presidente dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change - ovvero il panel di scienziati che ha condiviso il premio Nobel per la Pace con il più mediatico Al Gore) e chair del MIND (Munasinghe INstitute for Development); nel suo intervento sosteneva la necessità di rendere lo sviluppo più sostenibile, incorporando una nuova consapevolezza ecologista nei comportamenti umani ma sopratutto introducendo una serie di variabili di contesto all'interno dei modelli economici e di valutazione delle policy, variabili tradizionalmente considerate come esogene o ininfluenti nei modelli economici neoclassici. Il suo approccio, chiamato sustainomics, è un tentativo sincretico di riunificare gli studi economici con strumenti d'analisi propri dell'approccio dello sviluppo sostenibile.

Purtroppo, come accade ad una buona parte degli studiosi di problemi ambientali, la proposta appare più che altro una raccolta quantitativa di metodi, idee e strumenti correttivi, una opportuna complicazione di modelli troppo astratti o semplicistici, piuttosto che una nuova prospettiva qualitativa, capace di sfruttare i paradossi ed i limiti delle analisi tradizionali per rompere gli schemi ed indigare la cause più profonde della questione. E' vero, normalmente ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità, ma ciò che manca veramente ad approcci come quello della sustainomics è una riflessione sulle asimmetrie di potere che stanno dietro ai processi di cambiamento climatico e allo sfruttamento dell'ambiente.

Non basta la critica all'economia mainstream e all'antiecologismo economicista. Non è sufficiente andare oltre il particolarismo e al meccanicismo introducendo elementi di analisi dei sistemi, studio degli effetti di retrozione e feedback, attenzione al disequilibrio generato da ogni singola variabile. Se non guardiamo al modo in cui le dimensioni ambientale, sociale ed economica si intrecciano con le maglie del potere e della politica, anche un approccio orizzontale e mutuato dalle scienze della complessità, volto alla ricerca delle determinanti "distribuite" del problema del riscaldamento globale, risulterà incapace di essere esplicativo fino in fondo.

La crisi ambientale globale e, ancora più importante, la percezione della sua gravità e portata generale, sono fatti di natura estremamente politica. Politiche (e sociologiche) sono le cause, dalla spinta al consumo e alla domanda infinita (per sostenere l'industrializzazione di massa prima ed il mercato multinazionale on demand poi) alle distorsioni del mercato dovute alla competizione fra la potenze, dalle strategie di conservazione dell'egemonia portate avanti dagli USA alle piccole e grandi "ragion di stato" capaci di nascondere la necessità di global public goods per l'intera comunità umana dietro la mistificazione nazionalista. Politiche sono anche le conseguenze del "climate change": la differente posizione geografica dei vari stati implica differenti sfide, differenti incentivi e differenti guadagni (si, qualcuno potrebbe anche guadagnarci dal riscaldamento globale) dall'implementazione di soluzioni positive al problema; tutto ciò rende estremamente problematica l'attuazione di un patto mondiale per lo sviluppo sostenibile, almeno fino a quando durerà la divisione del pianeta in stati nazionali sovrani, evidente contraddizione rispetto alla globalizzazione dell'economia e alla contaminazione planetaria delle culture.

Il mutamento climatico è non democratico per sua natura; non è equo nè uguale per tutti proprio perchè colpisce i diversi popoli con intensità differenti, a seconda della loro abilità nell'adattamento e della fortuna/sfortuna geografica; la politica ed il potere si inseriscono nelle fratture aperte da questa non democraticità rafforzando la polarizzazione, lo sfruttamento e la dipendenza e rendendo il mutamento ancora più asimmetrico e pericoloso. Se gli studiosi di sustainomics non inizieranno a rendersi conto del gap di potere che sta dietro i rapporti fra le numerose variabili oggetto del loro studio, le loro proposte di cambiamento mancheranno sempre e comunque il bersaglio. E' la politica a dover recuperare la capacità di guidare l'umanità verso un'integrazione pacifica e sostenibile, gestendo il potere, quel Giano bi-fronte dal quale chi vuole cambiare la realtà non può prescindere, come la più grande forza di progresso e non come lo strumento di miopi scelte reazionarie. Altrimenti per il nostro pianeta non resterà nemmeno un piccolo spiraglio di futuro, rendendo vane le speranze e le battaglie di tutti coloro che hanno creduto davvero in un altro mondo possibile, in una società pacifica, equa e in armonia con l'ambiente.

Wednesday, November 5, 2008

A More Perfect Union

L'elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Obama è prima di tutto un evento profondamente simbolico: per il dialogo fra culture, per il "peccato originale" del razzismo americano, per la carica emotiva che ha accompagnato questa campagna elettorale, per mille altri motivi.

Mentre l'ondata neoliberista si spegne lentamente, colpita dai suoi stessi errori e dagli effetti delle crisi ambientale e finanziaria, Barack Obama introduce un nuovo linguaggio, un nuovo approccio, una nuova speranza nel sogno americano; le parole chiave del suo successo sono state hope e change, speranza e cambiamento, capacità di restituire anche all'uomo della strada la fiducia in una visione positiva del futuro, lontana sia dal manicheismo imperialista che dal nichilismo da "crisi della civiltà". Probabilmente il discorso più rappresentativo dell'anima "istituzionale" americana e maggiormente carico di contenuti politici fatto dal neo-presidente è quello tenuto il 18 marzo scorso al Philadelphia, dal titolo A More Perfect Union: in quella città, respirando l'atmosfera della Convenzione Costituente del 1787, Barack Obama ha ridato credibilità a quell'opera incompleta, a quell'"improbable experiment in democracy" che sono gli Stati Uniti d'America.

Purtroppo esiste anche una faccia negativa della medaglia, rappresentata questa volta da ciò che non è stato detto, dagli eventi lasciati in disparte; l'euforia per le elezioni non deve far dimenticare che l'amministrazione Bush ha ancora quasi due mesi di governo, durante i quali cercherà di sfruttare "al meglio" il tempo rimasto. Citando l'editoriale del New York Times del 4 novembre scorso:

While Americans eagerly vote for the next president, here's a
sobering reminder: As of Tuesday, George W. Bush still has 77 days
left in the White House — and he's not wasting a minute.

President Bush's aides have been scrambling to change rules and
regulations on the environment, civil liberties and abortion rights,
among others — few for the good. Most presidents put on a last-minute
policy stamp, but in Mr. Bush's case it is more like a wrecking ball.
We fear it could take months, or years, for the next president to
identify and then undo all of the damage.

[...]

We suppose there is some good news in all of this. While Mr. Bush
leaves office on Jan. 20, 2009, he has only until Nov. 20 to
issue "economically significant" rule changes and until Dec. 20 to
issue other changes. Anything after that is merely a draft and can be
easily withdrawn by the next president.

Unfortunately, the White House is well aware of those deadlines.


Tornando alle elezioni c'è un'altra questione significativa da sollevare, un punto che va al di là dell'Oceano Atlantico per toccare alla radice la crisi del processo di integrazione europea: gli europei, e in particolare la classe politica, hanno molto da imparare da quello che sta accadendo in questi giorni negli USA, qualunque sarà l'effettivo proseguimento di questa nuova avventura umana. Non si possono vincere le sfide politiche nel tempo della globalizzazione senza offrire ai cittadini dei sogni nei quali credere e dei simboli intorno ai quali la comunità può ricostruire la propria identità condivisa; servono nuovi orizzonti e un nuovo coraggio politico, servono proposte forti e democratiche. Solo seguendo l'esempio della reazione americana l'Europa potrà fondarsi come Federazione, unita nelle sue diversità. E, magari, anche la futura Costituzione Federale Europea potrà iniziare con le parole: "We the people, in order to form a more perfect union...".

Commenti impossibili e dissonanza cognitiva

Considerato che blogger non permette ormai da un paio di giorni di inserire commenti ai posts per colpa di problemi tecnici a me tutt'ora sconosciuti, "allego" in fondo a questo messaggio poche ma significative righe che mi ha inviato Lucia Ferrone riguardo le celebrazioni del 4 novembre ed il revival nazionalista. Quest'ultimo sarebbe da intendersi come il risultato di decisioni e percezioni falsate da un forte stato di dissonanza cognitiva in cui vivrebbero i cittadini europei (italiani in primis). Non posso che trovarmi completamente d'accordo con quest'analisi.

Il mio articolo sulla "dissonanza cognitiva" al quale Lucia si riferisce risale alla vittoria della coalizione Pdl-Lega alle ultime elezioni italiane e tenta di fornire una spiegazione dell'accaduto un po' fuori dal mainstream dei commenti politologici; potete trovarlo qui integralmente, mentre di seguito ne incollo un estratto:


«… questa teoria (ndr: fondata sul contributo del professore e psicologo sociale Leon Festinger) afferma che una persona la quale per l’una o l’altra ragione s’impegni ad agire in una maniera contraria alle sue convinzioni, o a quelle che crede essere le sue convinzioni, si trova in uno stato di dissonanza. Si tratta di uno stato sgradevole, e l’interessato tenterà di ridurre la dissonanza. Siccome il “comportamento discrepante” ha già avuto luogo, e non può esser disfatto, mentre le convinzioni possono esser cambiate, la riduzione della dissonanza può ottenersi principalmente modificando le proprie convinzioni nel senso di una maggiore armonia con le azioni».

In questo caso è la situazione politica italiana, europea e mondiale a generare lo stato di dissonanza; l’economia e la società del consumo e della competizione generano frustrazione, povertà e stress, ma dato che il contesto “discrepante” viene preso come un dato di fatto immutabile, risulta più facile mutare le nostre convinzioni. L’intervento di un messaggio politico populista e “disconnesso” dalla realtà dei fatti può a questo punto essere fondamentale nel ridurre la dissonanza cognitiva, fornendoci una visione del mondo semplificata e “migliore”. Se ciò è vero, quanto più il messaggio sarà falsato, eccessivamente propagandato o ampiamente implausibile, tanto più verrà accettato e tanto meglio si diffonderà, perché funzionale a far dimenticare una realtà complessa e sfavorevole. Da questo punto di vista gli italiani hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte ad un mondo sempre più tecnico e difficile da capire (o da semplificare per mezzo di un’ideologia) ed hanno accettato con piacere e sollievo il prezzo di un programma di governo fatto di promesse, ipocrisia e irresponsabilità, ottenendo in cambio una drastica riduzione del disagio provocato dalla vita nel mondo contemporaneo.

Come ho già detto in precedenza, una spiegazione esaustiva delle ragioni del voto sarebbe necessariamente molto più approfondita e specialistica, dovendo declinare gli effetti delle identità e delle appartenenza di gruppo (siano queste di partito, territoriali, sociali, economiche e così via), ma pensare la scelta elettorale come uno strumento collettivo per ridurre la forte dissonanza cognitiva generata dalle difficoltà di un mondo plurale e complesso è un’ipotesi intrigante e, per certi versi, realistica.



Commento di Lucia:

Credo che la spiegazione che tu stesso hai proposto delle ultime elezioni sia calzante anche in questo caso: dissonanza cognitiva, e tentativo di riduzione della stessa. Non è nonostante la de-nazionalizzazione, ma proprio a causa di essa, che, a mio parere, si è creata questa ondata di revival nazionalista, come lo chiami.
L'insicurezza, la paura e la crisi fanno il resto, ma anche queste sono conseguenze di una globalizzazione a briglia sciolta, come ben sappiamo. Credo che faccia paura, anche su un piano psicologico, rendersi singolarmente responsabili dei problemi e affrontare soluzioni di tipo cooperativo, che comunque metterebbero gli individui in primo piano. Affidarsi a una identità superiore fa sempre comodo, e ancora più comodo a qualcosa che si sente vicino e "familiare" come lo Stato Nazionale. E proprio nel processo di costruzione di queste identità che si creano storie e miti, identità mai esistite (vedi Sen).
Inoltre, se vogliamo divertirci con le teorie del complotto (sempre molto in voga anche loro nei momenti di crisi), potrei sostenere che gli Stati, consci della loro perdita di potere, fanno di tutto per aggrapparsi agli ultimi scampoli di gloria, istillando paura e dubbio, affinché i cittadini chiedano aiuto.
D'altra parte lo Stato è un attore collettivo, come tale non è la semplice somma delle parti, ed ha, guarda caso, un'identità propria. Collettiva pure quella, ma singola nella sua unità. O almeno ci prova.

Lucia.

Tuesday, November 4, 2008

4 Novembre, festa dell'Unità Europea

Su Eurobull.it ho provocatoriamente sostenuto che il 4 novembre, festa delle forze armate e dell'unità nazionale in ricordo della "vittoria" italiana nella I Guerra Mondiale, dovrebbe essere dichiarata "festa dell'unità europea" e che le uniche forze armate veramente degne di ringraziamento sarebbero quelle di un auspicabile esercito europeo, capace di trasformare l'Unione in una vera potenza civile (senza contare i risparmi economici sui bilanci nazionali, molto importanti in questi tempi di tagli generalizzati).

E' interessante e allo stesso tempo preoccupante seguire giorno per giorno la cronaca di questo revival nazionalista che sta investendo tutto il vecchio continente.. sopratutto per provare a capire in che modo un sentimento di appartenenza identitaria tipico del '900 possa evolversi nel contesto della de-nazionalizzazione che stiamo vivendo; ancora più affascinante è poi osservare la mistificazione all'opera, la ricostruzione attenta del passato e la reinvenzione dei miti mai esistiti.

D'altronde lo Stato, così come il perseguimento del "destino nazionale", sono semplici costrutti istituzionali e sociali, meccanismi assolutamente non universali ma ben collocati storicamente nel lungo percorso degli eventi umani; casomai l'unico destino sovraindividuale possibile a questo mondo potrebbe essere quello appartenente all'intera umanità, posta difronte alla scelta se autodistruggersi in un olocausto ecologico e nucleare o salvarsi per mezzo di un cambiamento radicale, una rivoluzione pacifica che attraverso delle istituzioni democratiche globali assicuri l'impossibilità dei conflitti armati e faccia prevalere la forza del diritto sul diritto della forza.

La divisione in stati nazionali della comunità umana è cosa obsoleta e pericolosa ma, come citava qualche tempo fa l'Irish Times "we humans are quite good at building new institutions in response to changing circumstances. Unfortunately, we can be a bit slow about dismantling older ones, and often focus more on the institution than on the job it is supposed to do." Sta al nostro coraggio e alla nostra fantasia andare oltre le categorie ed i muri concettuali esistenti, ricordandoci ogni volta quello che dicevano i primi astronauti che guardavano ammirati il nostro pianeta: "dall'alto la Terra non ha confini, nè frontiere".

Monday, November 3, 2008

Il posto dell'Ironia

Che posto ha l'ironia nell'ambito dell'etica? Secondo Richard Rorty, filosofo statunitense scomparso nel 2007, questo valore rappresenterebbe uno dei tre capisaldi di una possibile e auspicabile spiritualità laica, insieme alla solidarietà e alla carità.

Questa riflessione mantiene intatta la propria validità anche passando dalla prospettiva individuale all'ambito della politica? In un mondo in cui prevale il conflitto posizionale (vedi: "Social Limits to Growth" di Fred Hirsh, 1976) ed il vebleniano consumo di ostentazione, in un tempo in cui sia l'equità che la solidarietà (rappresentate politicamente dallo stato di diritto e dal welfare state) vengono progressivamente dismesse a favore dei rapporti mediati dal mercato, l'ironia diventa forse l'arma migliore a disposizione delle persone per non soccombere di fronte alle sfide contemporanee e per rispondere in maniera creativa, critica ed intelligente ad ogni tentativo di omologazione, negazione delle diversità e furto delle libertà di pensiero ed espressione.

p.s.: sopratutto è un grande orgoglio per tutti i toscani, da sempre fieri della propria pungente ironia!

Saturday, November 1, 2008

L'insostenibile leggerezza geopolitica dell'Europa

Ho scritto un nuovo articolo per Eurobull.it, dal titolo "L'insostenibile leggerezza geopolitica dell'Europa", per sottolineare la colpevole mancanza di un vero potere europeo in campo estero e militare, proprio nel momento in cui si osserva una nuova "primavera geopolitica", dal conflitto Russia-Georgia agli equilibri in costruzione fra le superpotenze asiatiche.

Ad aggiornamento dell'articolo possiamo aggiungere che, anche e sopratutto in risposta ai nuovi felici rapporti indo-giapponesi (di sospetta matrice contenitiva anticinese), la Repubblica Popolare Cinese e la nuova Russia di Putin-Medvedev stanno stringendo rapporti di partnership sempre più stretti e basati su una nuova comunanza ideale, in particolare nelle proposte di riforma dell'ordine economico internazionale dopo la crisi finanziaria. Della serie: se voi occidentali non ci ascoltate, pensando di poter risolvere i problemi del mondo attraverso vecchie proposte e categorie, allora iniziamo a muoverci da soli... e se è vero che quando gli USA hanno il raffreddore tutto il mondo si prende l'influenza, è ancora più vero che quando si muove la Cina tutto il pianeta trema.

Un'altra motivazione della vicinanza sino-russa potrebbe essere il duro colpo che la crisi ha inferto alla Russia, smascherando sia le debolezze ancora non sanate che la sua vera natura di PVS ricco di risorse naturali, nascoste fino ad oggi grazie ad una politica "mediatica" da neo-potenza economica, militare e culturale (a questo proposito basterebbe ricordare che, nonostante i nuovissimi investimenti nel settore militare, la Russia possiede ad oggi meno di un decimo delle risorse belliche americane).

Il reale stato di salute della Russia è stato ben illustrato in questi giorni da Robert Skidelsky, professore emerito a Warwick (nonchè autore della biografia di Keynes), che sul FT sostiene che "The idea that Moscow can use its energy to boost its world power without regard to anyone else has been destroyed" a causa della crisi finanziaria, e che "Russia needs to scale down its geopolitical ambition to its real weight – that of an emerging economy with only 3 per cent of the world’s gross domestic product and a quarter of America’s living standard. Also, it desperately needs to develop its human capital. The Putin era is over but Medvedev’s has not begun. This is the real Russian crisis."

Friday, October 31, 2008

More Really is different

Su arXiv.org, una open library promossa dalla Cornell University e dedicata a "Physics, Mathematics, Computer Science, Quantitative Biology and Statistics", è recentemente uscito un articolo di Mile Gu, Christian Weedbrook, Alvaro Perales and Michael A. Nielsen (tutti professori di università che vanno dal Canada all'Australia, passando per la Spagna), dal titolo "More Really is different". Al di là delle difficoltà interpretative che comporta il linguaggio scientifico usato nel paper, l'idea di fondo è che i sistemi fisici complessi non possono essere spiegati completamente attraverso una descrizione matematica che analizzi a livello "micro" le componenti del sistema.

Le "proprietà emergenti" sono caratteristiche del sistema, lì dove il risultato dell'interazione "non-semplice" (come direbbe Herbert Simon) è sempre qualcosa di qualitativamente diverso dalla somma (o di qualsiasi altra interazione matematica) delle sue parti. Come dire che attraverso i modelli matematici non è possibile spiegare perchè, a partire da un qualche "punto di rottura", la quantità si tramuta in qualità, gli elementi si trasformano in sistema organico. Torna alla mente il famoso dilemma dei granelli di sabbia che, aumentando di numero, si trasformano in montagna.

Ma per spiegare meglio il contenuto del paper, che si propone di ribadire le conclusioni di un altro famoso scritto, "More is Different" di P. W. Anderson (Anderson, P.W. More Is Different. Science 177, 393, 1972), lascio la parola agli autori:

In 1972, P. W. Anderson suggested that ‘More is Different’, meaning that complex physical systems may exhibit behavior that cannot be understood only in terms of the laws governing their microscopic constituents. We strengthen this claim by proving that many macroscopic observable properties of a simple class of physical systems (the infinite periodic Ising lattice) cannot in general be derived from a microscopic description. This provides evidence that emergent behavior occurs in such systems, and indicates that even if a ‘theory of everything’ governing all microscopic interactions were discovered, the understanding of macroscopic order is likely to require additional insights.

Scoprire che la matematica nel micro non spiegherebbe i comportamenti dei sistemi complessi nel macro, anche in presenza di una "teoria del tutto" per i fenomeni elementari, è stato un duro colpo: proprio adesso che studiando (una piccola parte di) Introduction to Modern Economic Growth di Daron Acemoglu iniziavo a pensare che tutto il mondo fosse formulabile in termini di programmazione dinamica e funzioni ricorsive!

Thursday, October 30, 2008

Nobel "occidentocentrico"?

Posto di seguito un breve articolo, apparso su Project Syndicate e firmato dal professor Kishore Mahbubani (originario di Singapore), recentemente salito alle luci della ribalta per essere diventato uno dei più autorevoli sostenitori del nuovo secolo asiatico e grande critico dell'"occidentocentrismo", quella prospettiva occidentaleggiante che ancora oggi pervade i discorsi e le prese di posizione della politica mondiale nonostante il grande shift di potere che si sta verificando a favore delle nuove grandi potenze e delle innovative tigri asiatiche.

Il topic di questo articolo è la critica al comitato norvegese che assegna i premi Nobel, messo sotto accusa dall'autore per aver assegnato il premio per la Pace a Martti Ahtisaari, rispettato politico e grande negoziatore (ultimamente per il Kosovo), citando nella motivazione ufficiale del premio l'opera di peacekeeping portata avanti in Aceh (Indonesia). Il problema non è tanto Ahtisaari, quanto il fatto che i negoziatori ed i politici indonesiani non siano stati minimamente menzionati, a dispetto del ruolo importante che hanno giocato nel processo di pacificazione.

Un'altra caduta di stile per l'Occidente, un'altra occasione persa per mostrare la dimensione pluralista e conciliante della cultura musulmana (da ricordare che l'Indonesia è il paese musulmano più grande del mondo), a dispetto della propaganda, sempre più pericolosamente attrattiva, dello scontro di Civiltà.



Nobel Injustice
Kishore Mahbubani

SINGAPORE – Martti Ahtisaari is a great man. He deserves the Nobel Peace Prize for his life work. But it was a mistake for the Norwegian Nobel Committee to cite his work in Aceh as a reason for giving him the prize.

As a recent story by Agence France Presse put it, Ahtisaari’s “most notable achievement was overseeing the 2005 reconciliation of the Indonesian government and the Free Aceh Movement rebels, bringing an end to a three-decade-old conflict that killed some 15,000 people.” But it was Indonesia’s people and leaders who should have received the Nobel Peace Prize for the Aceh political miracle.

More fundamentally, the mentioning of Aceh in this Nobel citation raises serious questions about the mental maps used by the Nobel Prize Committee in making these awards. The committee members increasingly seem to be prisoners of the past. They continue to assume that we live in an era of Western domination of world history.

But that era is over. Increasingly, the rest of the world has gone from being objects of world history to becoming its subjects. By giving the Nobel Peace Prize to the Indonesians instead of a European mediator for Aceh, the Nobel Prize Committee would have recognized that the world has changed.

Three other big benefits would also have resulted from giving the award to an Indonesian. First, the West associates the Islamic world with violence and instability. Few believe that Muslims are capable of solving their political problems by themselves.

But this is precisely what the Aceh story was all about. Two key Indonesian leaders, President Susilo Bambang Yudhoyono and Vice President Jusuf Kalla, showed remarkable political skill and courage in working out the peace deal for Aceh. A Nobel Peace Prize for them would have shown the West that Muslims can be good peacemakers and, equally important, it would have sent a message of hope to the Islamic populations of the world that have seen their self-esteem eroded by stories of failure.

Aceh was essentially a spectacular Muslim success story. Hence, the Nobel Peace Prize Committee has squandered a valuable opportunity to send out a message of hope to the world’s 1.2 billion Muslims, one that would have rid the world of the grand global illusion that peacemaking is a “white man’s burden.”

Wednesday, October 29, 2008

Arise Cliodynamics?

La Cliodynamics è una nuova (e interessante) disciplina in formazione, portata avanti prevalentemente dal prof. Peter Turchin della University of Connecticut, che tenta di verificare, attraverso modelli matematici e l'analisi di dati quantitativi, l'esistenza di regolarità della storia, con particolare attenzione all'ascesa e al declino dei grandi imperi. Con le parole di Turchin:

Cliodynamics (from Clio, the muse of history, and dynamics, the study of temporally varying processes) is the new transdisciplinary area of research at the intersection of historical macrosociology, economic history/cliometrics, mathematical modeling of long-term social processes, and the construction and analysis of historical databases. Mathematical approaches - modeling historical processes with differential equations or agent-based simulations; sophisticated statistical approaches to data analysis - are a key ingredient in the cliodynamic research program. But ultimately the aim is to discover general principles that explain the functioning and dynamics of actual historical societies.

Interessante tentativo quello di individuare le regolarità della storia, le "laws of history", in particolare se intese come utile strumento per l'elaborazione di global policies consapevoli per i nostri tempi complessi; tra l'altro questo filone si collega bene agli studi sulla complessità delle "dynamics of human behaviour", agli isomorfismi tra sistemi sociali e biologici-naturali e ai modelli sociologici di simulazione ad agenti, tutti quanti campi di studi che stanno acquisendo sempre più importanza e successo.

A mio avviso la filosofia di fondo della cliodynamics, la sua matrice storicista, ci obbliga ad alcune riflessioni critiche: quali sono i limiti della disciplina rispetto alle letture non-storiciste della storia, da Popper alla prospettiva epistemica di Foucault? In secondo luogo l'idea che la storia, in quanto esperimento non controllato, possa avere delle regolarità di natura "universale", valide in ogni tempo non mi pare totalmente convincente. Realisticamente la cliodinamica può prendere in considerazione, al massimo, il periodo che inizia con la "comparsa" dell'uomo per arrivare ai giorni nostri, un periodo molto breve rispetto a quello che risale a ritroso fino alla nascita del nostro pianeta, ma sopratutto non può inserire nel computo delle sue variabili i c.d. "cigni neri" (che oggi vanno molto di moda nella letteratura divulgativa), ovvero quelle situazioni di incertezza ontologica completamente imprevedibili e fuori addirittura dal campo della probabilità: la creazione di un governo mondiale democratico che ponga fine ai conflitti violenti ed inauguri un periodo di pacifica e sostenibile collaborazione fra tutti i popoli del mondo in che modo influenzerebbe le leggi della storia?

In ogni caso quelle appena fatte sono soltanto delle critiche di natura concettuale, che niente vogliono togliere allo scopo "scientifico" della cliodynamics, ovvero quello di rappresentare i path (i percorsi) evolutivi delle comunità umane, interpretando le nostre regole, i nostri rapporti sociali e di potere ed i nostri comportamenti come le componenti di un unico e grande sistema complesso.

Per concludere mi permetto di aggiungere che in realtà lo studio delle regolarità che guidano le dinamiche storiche di lungo periodo non è cosa del tutto nuova; la scuola macro-sociologica della longue durée di Braudel, Arrighi e Wallerstein utilizza come strumento d'analisi delle curve specifiche, le curve di Kondratie'v, per spiegare i ciclici cambiamenti che interessano il "sistema-mondo" capitalista (e quindi il periodo che parte, a seconda delle interpretazioni, dal XIV al XVI secolo). Il recentemente scomparso Andre Gunder Frank è riuscito ad andare addirittura oltre, estendendo questa metodologia ad un periodo molto più lungo, individuando tracce dei rapporti asimmetrici - costanti nel tempo - di dominazione e dipendenza fino all'egemonia orientale dei primi anni del II millennio e addirittura fino all'alba delle prime comunità umane organizzate.

Altiero Spinelli, di Piero S. Graglia

Non è facile giudicare un libro scritto da un caro conoscente, ma l'opera di Piero Graglia (Altiero Spinelli, ed. Il Mulino, 2008) rappresenta davvero un felice connubio di approfondita ricerca storica e qualità letteraria. In tutte le 700 (circa) pagine del libro traspare l'anima di Altiero Spinelli, la continua tensione tra realizzazione e fallimento (come nella più volte citata metafora de "il Vecchio ed il mare" di Hemingway) e la vicenda umana di un uomo nato per incarnare la battaglia per un'Europa più libera ed unita. Nella prima citazione del libro, riprendendo un proverbio arabo, si dice che "gli uomini assomigliano più ai loro tempi che ai loro padri"; il tempo in cui Spinelli ha vissuto, quello del fascismo, dei totalitarismi e dell'inizio della crisi del sistema internazionale degli stati chiamava a gran voce uomini nuovi ed idee rivoluzionarie, ed è in lui che questa necessità si è mostrata e realizzata nel modo più palese e genuino.

Altiero Spinelli, nonostante una personalità non povera di difetti e di "ruvidità", è stato un "legislatore del futuro", un visionario anticipatore del ruolo dell'Europa nel mondo e dell'irresponsabilità dei governi nazionali, degli scenari attuali e delle loro inedite opportunità. Politico lucido e inarrestabile, allo stesso tempo il più rivoluzionario degli utopisti e il più istituzionale dei realisti, Spinelli rappresenta la stella polare da seguire per tutti coloro che credono in un altro mondo possibile. Si badi bene, non l'altro mondo delle buone intenzioni chiesto a voce alta da molte organizzazioni e movimenti, ma quello fondato su nuove logiche e su nuovi poteri democratici, capaci di imbrigliare e cambiare tutte le forze, gli interessi, le asimmetrie e le disuguaglianze che governano la nostra realtà.

Bravo Piero, avevamo bisogno di riscoprire la poesia intessuta nelle trame della vita di uomo come Altiero, interamente dedicata alla militanza per un ideale più grande di un continente e più durevole di una vita intera. Continua così, sperando che altri giovani studiosi, seri e sognatori, seguano il tuo esempio!

Per completezza, e per tutti coloro che avessero voglia di leggersi un pezzo di storia del pensiero politico del '900 fondamentale ma spesso nascosto, di seguito ecco il link sia al Manifesto di Ventotene, scritto al confino da A. Spinelli ed E. Rossi (in collaborazione con Eugenio Colorni) che a Gli Stati Uniti d'Europa e le varie tendenze politiche , quest'ultimo forse ancora più illuminante per capire la forza della straordinaria proposta ideale dei federalisti europei.

Tuesday, October 28, 2008

Elogio degli Stati Uniti d'Europa

Quando anche gli esponenti del PDL iniziano a dire cose sensate significa che la crisi è veramente acuta, o forse che il tempo è ormai maturo per una riforma radicale dell'ordine economico e politico internazionale. Qualunque sia la motivazione di fondo, vale comunque la pena di leggere l'intervista rilasciato al Sole24ore da Mario Baldassarri, Presidente della Commissione Finanze del Senato, che si trova ad auspicare gli Stati Uniti d'Europa: "inoltre, ritengo che l'Europa dovrebbe essere presente fra i grandi come Europa unita. Bisognerebbe cioè cogliere l'occasione per un salto di qualità verso una sovranità politica piena. In sostanza, abbiamo la moneta unica ma è più che mai necessario costruire anche gli Stati Uniti d'Europa."

Non sono sicuro che alla base della crisi finanziaria ci siano solo i "global imbalances", che sposterebbero le colpe in primo luogo sull'ascesa della Cina e sul rapporto asimmetrico con gli USA indebitati. Indubbiamente "the rise of the Rest" (come direbbe Kishore Mahbubani, ironicamente in contrasto con "the rise of the West" dopo la rivoluzione industriale) è il processo che segnerà il futuro dell'economia e della politica mondiale, ma come la mettiamo con la colpevole inazione degli europei e, sopratutto, con le scelte politiche neoliberiste del governo americano? La deregulation del mercato finanziario e delle banche d'investimento è un'opera in corso dagli anni '90 e segue un preciso disegno politico che oggi si sta ritorcendo contro i propri ideologi.

Ma torniamo agli Stati Uniti d'Europa di Baldassarri; certo, non sarà la proposta federalista di Storeno (Ernesto Rossi), ma si parla di salto di qualità nel processo di integrazione e di sovranità politica piena. Sicuramente si tratta di un passo avanti e di un atto di coraggio, in un periodo dove le parole pesano miliardi di euro e dove la maggior parte delle proposte fatte dai leader nazionali sono confuse, generiche o volutamente inconcludenti. Di seguito l'intervista:


Mario Baldassarri (Pdl): «G-8 da allargare a Cina e India»
28 ottobre 2008

«La grave crisi finanziaria internazionale è in realtà solo la punta dell'iceberg. Dietro ci sono squilibri dell'economia mondiale, che sono molto più profondi e radicali e che oggi richiedono un riassetto complessivo di governance». Il presidente della Commissione finanze del Senato, Mario Baldassarri, motiva così la sua scelta di presentare, a nome del Pdl, una mozione che impegna il Governo ad agire in sede internazionale per promuovere una nuova Bretton Woods.

A quali squilibri si riferisce?
Da una parte abbiamo gli Stati Uniti, che consumano più di quel che producono e hanno un deficit estero pari al 7% del Pil da dieci anni. Dall'altra c'è la Cina, che invece consuma meno di quel che produce, ha un enorme risparmio e fino ad ora con queste enormi disponibilità comprava il debito americano. Poi, i cinesi si sono accorti che non bastava più comprare titoli di stato americani e hanno cominciato a comprare pezzi di economia reale. E adesso hanno in mano un fondo sovrano con il quale possono comprare in giro per il mondo banche e imprese. E, per effetto della crisi finanziaria, possono ottenerli a prezzi stracciati.

Quindi, dietro alla crisi finanziaria internazionale ci sono i global imbalances, come dicevano i vecchi documenti del Fmi...
Certo, ci sono gli squilibri globali dell'economia reale. La finanza e la sua crescita smisurata è solo la conseguenza. La Cina, ad esempio, è entrata nel Wto ma non è entrata nel sistema dei cambi e abbiamo avuto un renminbi cinese che si è agganciato al dollaro per decisione politica e si è preso il 50 per cento di svalutazione verso l'euro. L'Europa ha in tal modo regalato il 50 per cento di dazi negativi alla Cina, attraverso il super euro. Ma c'è un altro motivo che depone a favore di un rapido cambiamento dell'ordine economico definito a Bretton Woods.

Quale?
Il G8 di cui noi parliamo ora fra tre o 5 anni, in base ai pesi economici, dovrebbe essere ristrutturato. Fra cinque anni avremo infatti la Cina come primo paese per valore assoluto del Pil seguita da Stati Uniti Giappone Russia, India Brasile Corea . E, a seguire, uno dei quattro principali paesi europei. Non si può continuare a dire: decidiamo in seno al G8 e poi invitiamo Cina e India, cioè due paesi che pesano per un terzo dell'economia mondiale. Serve un governo mondiale adeguato e condiviso.

Dovrebbero cambiare anche le istituzioni, oltre che la governance internazionale?
Non serve moltiplicare i centri di decisione istituzionali. Il problema di fondo è che nel G8 non sono rappresentate tutte le economie più forti. Inoltre, ritengo che l'Europa dovrebbe essere presente fra i grandi come Europa unita. Bisognerebbe cioè cogliere l'occasione per un salto di qualità verso una sovranità politica piena. In sostanza, abbiamo la moneta unica ma è più che mai necessario costruire anche gli Stati Uniti d'Europa.

La sostenibilità come impegno morale

A seguito del dibattito che è nato intorno ad un articolo pubblicato su Eurobull, dal titolo "Tempo di crisi" (http://www.taurillon.org/Tempo-di-crisi) ho provato a spiegare le ragioni a sostegno della sostenibilità ambientale anche nel caso in cui i cambiamenti climatici non fossero causati dall'uomo ma dipendessero da complesse dinamiche cicliche di origine naturale (come del resto è accaduto svariate volte nella storia del pianeta).

"Mi pare che alle questioni sollevate ci sia un modo molto più diretto e semplice per rispondere. E’ senz’altro vero che il clima è un sistema dinamico che subisce e ha subito repentini capovolgimenti nella sua «storia», anche senza la presenza umana. Nonostante questa tesi veritiera è possibile obiettare che:

1) la comparsa dell’uomo è avvenuta in un periodo in cui il clima avrebbe dovuto raffreddarsi (global cooling), mentre ciò che è avvenuto, contrariamente ad ogni previsione, è stato una radicale inversione delle tendenze, con l’ inizio di un graduale riscaldamento climatico. Si parla a questo proposito di «antropocene anticipato» (early anthropocene hypotesis), nel senso che non sarebbe solo l’industria, ma tutta l’attività umana (dalle emissioni di metano prodotte dall’agricoltura stanziale in poi) a produrre instabilità climatica aggiuntiva rispetto agli equilibri naturali. Inoltre bisogna considerare che gli elementi inquinanti nell’aria, misurate in parti per metro cubo (ppm3), hanno raggiunto negli ultimi anni un livello mai visto nella storia del pianeta, nemmeno prima che i nostri antenati iniziassero a scendere dagli alberi per raccogliere e cacciare. Detto questo possiamo convenire che forse qualche elemento di novità (negativo) il genere umano l’abbia portato, anche solamente nel caso in cui abbia rafforzato o smorzato tendenze naturali già in corso.

2) Anche se la pressione distruttiva dell’uomo sull’ambiente non fosse la causa-prima del cambiamento climatico, resta il fatto che il disastro imminente è certo in ogni caso. Innalzamento dei mari, scioglimento dei ghiacci, conflitti per le risorse, polarizzazione delle ricchezze, circolazione delle malattie, desertificazione ecc. avverranno comunque. Ed il bello è che, per la prima volta nella storia, questi disastri non coinvolgeranno un popolo, una comunità, un paese, ma tutto il mondo, nessuno escluso (anche se con effetti diversi, e su questo si potrebbe discutere). Un comportamento più sostenibile e adattativo, uno sguardo più lungimirante non sarebbero ugualmente utili per favorire la pacifica sopravvivenza dell’umanità?

3) La sostenibilità non è solo ambientale. Oltre ai limiti dello sviluppo (quelli di Meadows-Club di Roma), ci sono i limiti sociali allo sviluppo, la tensione tra la crescita economica infinita ed un mondo fatto di risorse finite, l’insostenibilità anche etica del consumismo, la tensione insopportabile generata dalle disuguaglianze globali, gli effetti collaterali del dominio dei paesi industrializzati sui PVS (Paesi in Via di Sviluppo).

Esistono perciò diversi buoni motivi per essere favorevoli ad un mondo più equo e sostenibile, anche se non siamo certi della causalità umana nel processo di global warming. Anche se non crediamo nelle analisi e nella prospettiva ecologista, l’impegno per un mondo migliore e diverso è prima di tutto un imperativo morale."

Un commento ad Hitler, di Giuseppe Genna

Finito di leggere il bellissimo libro di Genna, Hitler, ho buttato giù un brevissimo commento su anobii (www.anobii.com) che riporto qui di seguito:

"Cupo, disperato, bellissimo. Ho apprezzato davvero tanto lo stile narrativo di Genna ed il suo tentativo di trasformare in un fiume di parole la banalità del male, la forza perversa dell'ideologia. E non c'è pazzia... si dice che "niente di umano mi è estraneo" proprio perchè anche in fondo all'incubo nazista non c'è stato nient'altro che l'uomo. Oggi il mondo è basato sulla violenza e sul terrore, è la vittoria postuma di Hitler, ma come si ribadisce nel libro il male non è mai qualcosa di profondo, altrimenti non potrebbe espandersi così veloce, a macchia d'olio.. è piuttosto una semplificazione, una superficialità. E' il bene che è profondo, è la fatica di sondare la natura più intima dell'essere umano. Complimenti all'autore."

Sulla crisi finanziaria - links

Di seguito i links a tre articoli che ho scritto recentemente per Eurobull.it (www.eurobull.it) e Peacelink (www.peacelink.it) proprio sul tema della crisi finanziaria (uno in realtà è un comunicato stampa della Gioventù Federalista Europea):

1) Federazione Europea o Catastrofe Economica: http://www.taurillon.org/Federazione-Europea-o-Catastrofe-Economica (versione francese: http://www.taurillon.org/Federation-europeenne-ou-catastrophe-economique)

2) La Fiera delle non-vanità - le mancanze politiche dietro la crisi finanziaria: http://www.taurillon.org/La-fiera-delle-non-vanita

3) Tre risposte al panico: http://www.taurillon.org/Tre-risposte-al-panico

Sulla crisi finanziaria - prologo

Trovo l'attuale crisi finanziaria di grande ispirazione; stiamo vivendo un fase di transizione storica ma i segnali della crisi sono ancora striscianti, per questo motivo è necessario raccontare, narrare, spiegare questa crisi. In effetti più della crisi stessa, per adesso stiamo vivendo "il racconto dela crisi", uno spettacolo a distanza fatto di sfiducia, disperazione e cambiamento che sembra quasi una iper-realtà simulata (à la Baudrillard) piuttosto che qualcosa di reale. Gli effetti sulle nostre vite non tarderanno però a farsi sentire se è vero, come sostiene Immanuel Wallerstein (e con lui tutti i discendenti della scuola braudeliana), che il momento attuale non prefigura una semplice recessione, ma addirittura la fase finale due cicli capitalistici, uno di medio periodo (quello iniziato dopo l'altra grande crisi, quella petrolifera del '73) e uno di lungo periodo, identificabile con il periodo egemonico americano. Giovanni Arrighi ne "il lungo XX secolo" (Il saggiatore, 1994) ha spiegato molto bene tutto quello che sta accadendo oggi, ma sull'attualità delle sue teorizzazioni mi dilunghero in un prossimo post.

Per coloro che pensano che questa crisi si dissolverà lentamente proprio perchè non è scoppiata di botto come successo nel '29 lascio la parola ad un capoverso di un articolo di Riccardo Bellofiore apparso recentemente su "Il Manifesto":

"Anche chi aveva bandito la parola - estremo esorcismo - ora si ritrova a pronunciarla: recessione. Come allora, nel '29. Solo col passare del tempo venne consegnata ai posteri con un nome differente: Grande Depressione. Contrariamente a quel che si crede, il 1929 non fu un «botto» solitario, ma una lunga serie di cadute, segnate da improvvise «riprese» di borsa. Una discesa prolungata, costante, che solo dopo un paio d'anni cominciò a riversarsi sull'economia reale, sulla produzione e, quindi, alla fine, anche sull'occupazione. Una crisi che arriva dentro le famiglie, che viene drammaticamente vissuta e ripetuta in questi giorni anche in Italia, con tante fabbriche che annunciano improvvisi tagli e chiusure, cassa integrazione e licenziamenti. Senza dimenticare i lavoratori precari, privi persino di ammortizzatori sociali."

Monday, October 27, 2008

Introducendo "The Cocktail Economy"

Quando William Shakespeare affermava, attraverso le parole di Amleto, che "...ci sono più cose in cielo ed in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia...", aveva certamente ragione. La molteplicità di valori, incentivi, identità e percezioni che guidano l'agire degli uomini vanno al di là di qualsiasi tentativo di modellizzare, categorizzare o ridurre a semplice teoria. Ma allo stesso tempo capire questa molteplicità rappresenta la sfida più grande e affascinante per tutti coloro che cercano continuamente di "guardare il mondo con occhi nuovi" (il vero viaggio di scoperta, per Marcel Proust); ne nasce quella positiva tensione fra "il pessimismo della ragione" e "l'ottimismo della passione" che non potrà mai ridursi a favore di un contendente o dell'altro.

Nello spazio di questo blog cercherò da un lato di spiegare, con il pessimismo della ragione, il perchè di tanti fatti, idee e tendenze che rendono questo mondo un posto così interessante in cui vivere, mentre dall'altro proverò ad offrire la mia visione delle cose, una prospettiva che coniughi il pensiero e l'azione seguendo l'ottimismo della passione.

Perchè scegliere lo strano titolo "The Cocktail-Economy"? Prima di tutto perchè assomiglia al più famoso "The Long-tail economy", nella speranza di emulare un successo planetario. Ma il vero motivo è metaforico: provare ad analizzare i nostri giorni senza tenere ben presente il sistemico rapporto tra l'economia, il potere, l'identità, la cultura, la storia e la volontà politica significa sostanzialmente studiare qualcosa che non esiste affatto (ma questo gli economisti ancora non lo hanno capito del tutto...). Ognuna di queste dimensioni vive in relazione con le altre, in un complicato mix che, con un po' di ironia, potremmo definire cocktail.

Abba P. Lerner sosteneva che ogni transazione economica è in realtà un problema politico già risolto, e aveva ragione: sono le asimmetrie di potere, le appartenenze di gruppo, il contesto ambientale, le dinamiche delle istituzioni, del linguaggio e della cultura a creare le condizioni affinchè l'economia ci appaia in tutta la sua globalizzata evidenza. A mio avviso, il miglior modo per capire questa complessità emergente non è quello di separare uno ad uno tutti gli ingredienti, quanto piuttosto sedersi comodamente e gustare con attenzione, fantasia e creatività il cocktail che nasce dalla loro unione.