Tuesday, December 2, 2008

Sui rischi e sulle opportunità: dalla crisi finanziaria alla finanza islamica, fino al ruolo della Cina


Non è così banale riuscire a vedere in ogni rischio anche un'opportunità. Eppure questo è ciò che accade continuamente in tutto il mondo, specialmente in questi anni di transizione. Quando le crisi colpiscono in modo "non democratico" e non omogeneo a causa delle asimmetrie che nascono sui terreni della politica, dell'integrazione economica, della geografia e del declino egemonico, le prospettive ed i punti di vista si moltiplicano in un'esplosione caleidoscopica di ricchezza interpretativa della realtà.

Primo esempio: la crisi finanziaria che continua a soffocare il "turbocapitalismo" occidentale apre prospettive molto interessanti per la finanza islamica. Quest'ultima, con le sue regole stringenti, l'impossibilità di creare denaro dal denaro e la stretta connessione con le attività produttive materiali potrebbe elevarsi a modello da imitare per ricondurre la bolla finanziaria entro i binari della sostenibilità economica, sociale e ambientale, suggerendo le nuove regole del gioco dell'economia internazionale (Loretta Napoleoni, nel suo libro "Economia Canaglia" - ed. il Saggiatore, 2008 - suggerisce che i valori fondativi di un nuovo ordine globale vanno cercati proprio nella finanza islamica).

Così, mentre un Islam da sempre identificato con il radicalismo ha l'opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" (come direbbero Rajan-Zingales), il modello più occidentalista, quello americano, rischia di franare su sè stesso a causa di scelte politiche e non dal sapore molto "religioso". Joseph Stiglitz riassume in modo intrigante il declino, l'"immoralità" statunitense e l'irresponsabilità nei confronti del mondo intero non attraverso i sette vizi capitali, quanto piuttosto attraverso la miopia e il conservatorismo disciolti nei sette deficit capitali (altro che i deficit gemelli delle teorie macroeconomiche!): il deficit dei valori, il deficit del clima, il deficit dell'uguaglianza, il deficit della responsabilità, il deficit del commercio, il deficit del bilancio ed infine il deficit degli investimenti.

Secondo esempio: capovolgendo quando detto finora, là dove gli occidentali vedono un'opportunità, altri paesi - la Cina in particolare - vedono, se non un rischio, comunque un avvenimento non troppo rilevante. Il successo di Barack Obama è in questo senso emblematico: simbolo della vittoria della democrazia, degli ideali e della passione, nonché promotore dell'idea che una speranza ed un cambiamento di natura quasi "universale" siano possibili, la vicenda del neo-presidente eletto americano è quasi assente dal dibattito politico cinese; segno di una emergente autonomia politica e intellettuale cinese, oltre che del crescente fastidio asiatico verso il western globalism di un'America ormai in ritirata? Come osserva su ResetDoc Daniel Bell, professore di teoria politica all’Università Tsinghua di Pechino, in Cina, riguardo l'elezione di Obama, la popolazione

... sembra sorprendentemente indifferente. Sui siti web, ci sono pochi dibattiti che riguardano la politica americana e la gente sembra più interessata a parlare dei negoziati tra la Cina e i leader di Taiwan. Sì, i risultati elettorali americani sono stati trasmessi dalla televisione di Stato cinese senza alcun evidente pregiudizio – come accadde invece quattro anni fa – ma questo significa semplicemente che il regime ha meno da temere dall’esempio americano. Nel 2004, l’invasione dell’Iraq era ancora fresca nella mente dell’opinione pubblica e gli Stati Uniti erano messi in relazione più con le aspirazioni egemoniche che con gli ideali democratici. Oggi, il tracollo finanziario ha riabilitato la critica marxista al capitalismo e le lotte “sovrastrutturali” per la leadership politica non suscitano grandi passioni.

In aggiunta a quanto detto finora, la crisi finanziaria rappresenta per la Cina una grande sfida (aumenta la disoccupazione, diminuisce la crescita) ma anche l'opportunità per emergere definitivamente come nuova iperpotenza globale. Tralasciando il dibattito sulla possibilità di un futuro ordine multipolare fatto di molti centri e di molte periferie piuttosto che di una sola potenza egemone, è chiaro che oggi l'equilibrio precario dell'economia mondializzata si regge sulle spalle dei cinesi: dalla produzione a basso costo al finanziamento degli agonizzanti consumi americani, la Cina tiene le redini del capitalismo e, potenzialmente, potrebbe stringerle ancora di più. E' certamente vero che in questi casi non sempre il "creditore" è colui che vince,nel grande gioco delle relazioni internazionali, ma lo squilibrio esistente oggi non potrà durare a lungo e, come dice giustamente Romano Prodi sul Messaggero del 30 novembre u.s., se prima solo il capitalismo poteva salvare la Cina (quella di Deng Xiaoping e dell'"arricchirsi è onorevole"), adesso è solo la Cina che può salvare il capitalismo.

Forse la familiarità di quest'ultima frase rispetto a quanto detto precedentemente sulla finanza islamica e sulla sua opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" non nasce a caso: il mondo ha bisogno di nuove idee, nuovi punti di vista e nuove prospettive per uscire dal vicolo cieco della crisi e per tornare a vedere delle opportunità là dove oggi regnano soltanto rischi e paure. Ed è un peccato che l'Europa continui senza vergogna a vantarsi del proprio status di "autismo politico" nel momento in cui tutto il mondo avrebbe bisogno di un'Unione democratica e decisa, sicura ed aperta, una Federazione Europea capace di dare un nuovo slancio al lungo e difficile viaggio dell'umanità verso un futuro di Pace Perpetua.

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