Recentemente ho avuto l'occasione di ascoltare, ad un convegno organizzato dalla Provincia di Venezia e dal World Political Forum di Mikhail Gorbachev, l'intervento di Mohan Munasinghe, vice-presidente dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change - ovvero il panel di scienziati che ha condiviso il premio Nobel per la Pace con il più mediatico Al Gore) e chair del MIND (Munasinghe INstitute for Development); nel suo intervento sosteneva la necessità di rendere lo sviluppo più sostenibile, incorporando una nuova consapevolezza ecologista nei comportamenti umani ma sopratutto introducendo una serie di variabili di contesto all'interno dei modelli economici e di valutazione delle policy, variabili tradizionalmente considerate come esogene o ininfluenti nei modelli economici neoclassici. Il suo approccio, chiamato sustainomics, è un tentativo sincretico di riunificare gli studi economici con strumenti d'analisi propri dell'approccio dello sviluppo sostenibile.
Purtroppo, come accade ad una buona parte degli studiosi di problemi ambientali, la proposta appare più che altro una raccolta quantitativa di metodi, idee e strumenti correttivi, una opportuna complicazione di modelli troppo astratti o semplicistici, piuttosto che una nuova prospettiva qualitativa, capace di sfruttare i paradossi ed i limiti delle analisi tradizionali per rompere gli schemi ed indigare la cause più profonde della questione. E' vero, normalmente ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità, ma ciò che manca veramente ad approcci come quello della sustainomics è una riflessione sulle asimmetrie di potere che stanno dietro ai processi di cambiamento climatico e allo sfruttamento dell'ambiente.
Non basta la critica all'economia mainstream e all'antiecologismo economicista. Non è sufficiente andare oltre il particolarismo e al meccanicismo introducendo elementi di analisi dei sistemi, studio degli effetti di retrozione e feedback, attenzione al disequilibrio generato da ogni singola variabile. Se non guardiamo al modo in cui le dimensioni ambientale, sociale ed economica si intrecciano con le maglie del potere e della politica, anche un approccio orizzontale e mutuato dalle scienze della complessità, volto alla ricerca delle determinanti "distribuite" del problema del riscaldamento globale, risulterà incapace di essere esplicativo fino in fondo.
La crisi ambientale globale e, ancora più importante, la percezione della sua gravità e portata generale, sono fatti di natura estremamente politica. Politiche (e sociologiche) sono le cause, dalla spinta al consumo e alla domanda infinita (per sostenere l'industrializzazione di massa prima ed il mercato multinazionale on demand poi) alle distorsioni del mercato dovute alla competizione fra la potenze, dalle strategie di conservazione dell'egemonia portate avanti dagli USA alle piccole e grandi "ragion di stato" capaci di nascondere la necessità di global public goods per l'intera comunità umana dietro la mistificazione nazionalista. Politiche sono anche le conseguenze del "climate change": la differente posizione geografica dei vari stati implica differenti sfide, differenti incentivi e differenti guadagni (si, qualcuno potrebbe anche guadagnarci dal riscaldamento globale) dall'implementazione di soluzioni positive al problema; tutto ciò rende estremamente problematica l'attuazione di un patto mondiale per lo sviluppo sostenibile, almeno fino a quando durerà la divisione del pianeta in stati nazionali sovrani, evidente contraddizione rispetto alla globalizzazione dell'economia e alla contaminazione planetaria delle culture.
Il mutamento climatico è non democratico per sua natura; non è equo nè uguale per tutti proprio perchè colpisce i diversi popoli con intensità differenti, a seconda della loro abilità nell'adattamento e della fortuna/sfortuna geografica; la politica ed il potere si inseriscono nelle fratture aperte da questa non democraticità rafforzando la polarizzazione, lo sfruttamento e la dipendenza e rendendo il mutamento ancora più asimmetrico e pericoloso. Se gli studiosi di sustainomics non inizieranno a rendersi conto del gap di potere che sta dietro i rapporti fra le numerose variabili oggetto del loro studio, le loro proposte di cambiamento mancheranno sempre e comunque il bersaglio. E' la politica a dover recuperare la capacità di guidare l'umanità verso un'integrazione pacifica e sostenibile, gestendo il potere, quel Giano bi-fronte dal quale chi vuole cambiare la realtà non può prescindere, come la più grande forza di progresso e non come lo strumento di miopi scelte reazionarie. Altrimenti per il nostro pianeta non resterà nemmeno un piccolo spiraglio di futuro, rendendo vane le speranze e le battaglie di tutti coloro che hanno creduto davvero in un altro mondo possibile, in una società pacifica, equa e in armonia con l'ambiente.
Purtroppo, come accade ad una buona parte degli studiosi di problemi ambientali, la proposta appare più che altro una raccolta quantitativa di metodi, idee e strumenti correttivi, una opportuna complicazione di modelli troppo astratti o semplicistici, piuttosto che una nuova prospettiva qualitativa, capace di sfruttare i paradossi ed i limiti delle analisi tradizionali per rompere gli schemi ed indigare la cause più profonde della questione. E' vero, normalmente ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità, ma ciò che manca veramente ad approcci come quello della sustainomics è una riflessione sulle asimmetrie di potere che stanno dietro ai processi di cambiamento climatico e allo sfruttamento dell'ambiente.
Non basta la critica all'economia mainstream e all'antiecologismo economicista. Non è sufficiente andare oltre il particolarismo e al meccanicismo introducendo elementi di analisi dei sistemi, studio degli effetti di retrozione e feedback, attenzione al disequilibrio generato da ogni singola variabile. Se non guardiamo al modo in cui le dimensioni ambientale, sociale ed economica si intrecciano con le maglie del potere e della politica, anche un approccio orizzontale e mutuato dalle scienze della complessità, volto alla ricerca delle determinanti "distribuite" del problema del riscaldamento globale, risulterà incapace di essere esplicativo fino in fondo.
La crisi ambientale globale e, ancora più importante, la percezione della sua gravità e portata generale, sono fatti di natura estremamente politica. Politiche (e sociologiche) sono le cause, dalla spinta al consumo e alla domanda infinita (per sostenere l'industrializzazione di massa prima ed il mercato multinazionale on demand poi) alle distorsioni del mercato dovute alla competizione fra la potenze, dalle strategie di conservazione dell'egemonia portate avanti dagli USA alle piccole e grandi "ragion di stato" capaci di nascondere la necessità di global public goods per l'intera comunità umana dietro la mistificazione nazionalista. Politiche sono anche le conseguenze del "climate change": la differente posizione geografica dei vari stati implica differenti sfide, differenti incentivi e differenti guadagni (si, qualcuno potrebbe anche guadagnarci dal riscaldamento globale) dall'implementazione di soluzioni positive al problema; tutto ciò rende estremamente problematica l'attuazione di un patto mondiale per lo sviluppo sostenibile, almeno fino a quando durerà la divisione del pianeta in stati nazionali sovrani, evidente contraddizione rispetto alla globalizzazione dell'economia e alla contaminazione planetaria delle culture.
Il mutamento climatico è non democratico per sua natura; non è equo nè uguale per tutti proprio perchè colpisce i diversi popoli con intensità differenti, a seconda della loro abilità nell'adattamento e della fortuna/sfortuna geografica; la politica ed il potere si inseriscono nelle fratture aperte da questa non democraticità rafforzando la polarizzazione, lo sfruttamento e la dipendenza e rendendo il mutamento ancora più asimmetrico e pericoloso. Se gli studiosi di sustainomics non inizieranno a rendersi conto del gap di potere che sta dietro i rapporti fra le numerose variabili oggetto del loro studio, le loro proposte di cambiamento mancheranno sempre e comunque il bersaglio. E' la politica a dover recuperare la capacità di guidare l'umanità verso un'integrazione pacifica e sostenibile, gestendo il potere, quel Giano bi-fronte dal quale chi vuole cambiare la realtà non può prescindere, come la più grande forza di progresso e non come lo strumento di miopi scelte reazionarie. Altrimenti per il nostro pianeta non resterà nemmeno un piccolo spiraglio di futuro, rendendo vane le speranze e le battaglie di tutti coloro che hanno creduto davvero in un altro mondo possibile, in una società pacifica, equa e in armonia con l'ambiente.
bell'articolo, condivido.
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