Tuesday, March 17, 2009

Sull'antimanuale di economia

L'antimanuale di economia di Bernard Maris (Marco Tropea editore, 2005) si legge come un romanzo; sullo sfondo della sua prosa semplice e discorsiva vengono toccati quasi tutti i punti critici della teoria economica mainstream. Chissà che il linguaggio letterario non sia a sua volta una critica indiretta alla profonda natura retorica delle "scienze" economiche!

La costruzione del libro gioca però a sfavore dell'autore e del suo compito di offrire anche ai novizi della materia una sorta di manuale eterodosso, una guida del paese "Economia": solo chi ha attraversato con spirito critico i pericolosi territori dell'economia neoclassica, destreggiandosi fra modelli, equazioni, autori e scuole di pensiero, potrà apprezzare appieno tutte le citazioni ed i riferimenti inseriti; soltanto coloro che hanno studiato qualcosina di economia ecologica e di antropologia economica riusciranno ad effettuare i giusti collegamenti...

Se a questa componente "strutturale" aggiungiamo alcune banalizzazioni, l'accento troppo marcato sulla storia/realtà francese (e di conseguenza - come lo definirebbe Beck - il "nazionalismo metodologico" che permea il volume) l'opera di Maris perde un po' rispetto alle aspettative che la caratterizzavano.

Detto questo il libro resta molto carino, ben fatto e ovviamente interessante, in particolare i primi capitoli nei quali si fa direttamente riferimento (critico o apologetico) ad autori storici, modelli divenuti "classici" e "pilastri" teorici della scienza economica; interessante la scelta di inserire degli estratti dai testi di riferimento alla fine di ogni capitolo (meno interessanti, invece, alcuni - solo alcuni - degli autori scelti).

L'autore riesce nell'operazione di creare un libro capace di racchiudere buona parte degli sguardi alternativi ed eterodossi sul mainstream economico; per questo motivo l'antimanuale di economia resta un ottimo inizio (o un'ottimo ripasso) per tutti coloro che, credendo davvero nelle potenzialità della teoria economica, rifiutano di chiudere gli occhi e di spegnere il cervello e restano sempre alla ricerca di nuovi e intriganti modi per guardare, leggere e spiegare la realtà.

p.s.: Il libro è, in fondo e in modo nemmeno troppo nascosto, un'ode spassionata a John Maynard Keynes, ma non c'è niente di male in questo!

Friday, March 6, 2009

Amartya Sen e l'identità individuale e collettiva

Pubblico oggi la recensione a "Identità e Violenza" e "l'Altra India", i due libri più recenti di Amartya Sen (premio Nobel per l'economia 1998), fatta dalla mia amica Lucia Ferrone, e pubblicata anche sulla famosa rivista fiorentina il Ponte (quella fondata da Piero Calamandrei il quale, per inciso, è stato il fondatore negli anni della guerra dell'AFE, l'Associazione dei Federalisti Europei poi confluita nell'MFE... ma questa è un'altra storia).


Amartya Sen e identità individuale e collettiva.

Commento a Identità e violenza e L'Altra India.

Il filo che collega i due volumi può sembrare sottile e all'apparenza inesistente: il primo, Identità e Violenza (Laterza, 2006), affronta il problema, in maniera 'focosa' e quasi di getto, della definizione dell'identità individuale. Un problema complesso e antico, di cui Sen tratta il nodo principale: è possibile per un individuo definirsi con un'unica identità? E' possibile che una appartenenza prevalga sulle altre in modo netto? La trattazione è ovviamente divulgativa e non filosofica, centrata sugli avvenimenti e i problemi dell'attualità, tuttavia mette in luce alcune tematiche principali che vedremo di seguito.

L'altro volume di cui si parla, L'altra India (Mondadori, 2005), è una raccolta di sedici saggi in cui il Professore tratta, direttamente o più indirettamente, dell'India, della sua storia e della sua cultura e tradizioni; è una raccolta rivolta quasi più agli indiani stessi che non agli "stranieri", per quanto molto ci sia da imparare da questa lettura.

Il sottotitolo del secondo volume è peculiare: "La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana".

Quello che Sen sembra proporsi, raccogliendo questi saggi e dando loro un corpus organico e logico, è di sfatare il mito dell'identità indiana comunemente sentita, ovvero sfatare il mito dell'India come culla del misticismo religioso, degli indiani "spirituali" tanto cari al pensiero New Age degli anni Settanta; questa visione dell'India è distorta, dice Sen: figlia di un passato coloniale che ha pesato in maniera decisiva sulla costruzione dell'identità indiana. Da buon 'illuminista', Amartya Sen ci tiene a far conoscere al mondo il lato profondamente razionale e scientifico della cultura e della storia indiane.

E' a questo punto evidente il filo conduttore che lega le due trattazioni: da una parte si ha il problema dell'identità individuale, dall'altra un'identità collettiva: l'"indianità"; in entrambi i casi quello che a Sen preme sfatare è l'idea -che oggi sembra predominante- che l'identità possa essere unica e, soprattutto, univoca.

Il pensiero corrente, dice Sen, sembra partire da due presupposti. In primo luogo, la convinzione che l'identità di un individuo sia unica e univocamente determinabile in base al sistema di riferimento scelto: se si parla di divisioni geo-politiche, o di "civiltà", tanto per richiamare il più volte citato Huntington, si è "occidentali" o si è "islamici" oppure "indù", e c'è poca scelta nell'essere l'uno o l'altro; in secondo luogo, ed è un errore di tipo simile, il pensare che un'identità collettiva, raggruppante più persone, possa essere al suo interno assolutamente omogenea, senza divisioni rilevanti di sorta, senza alcuna soluzione di continuità.

Dunque, partendo da questi due presupposti, spiegare il mondo diventa quantomai semplice e rassicurante: se un gruppo di persone risponde a una identità collettiva, che è omogenea e unica, ogni individuo all'interno di quel gruppo è univocamente determinato, con tutto ciò che questa determinazione comporta.

Sen ci mette sull'avviso di ciò a cui porta questa divisione del mondo (e non importa che sia una divisione a due, tre o anche cento parti): una percezione assolutamente distorta, che concentra i problemi dell'esistenza in "cosa" si è, e, conseguentemente, da che parte si sta. Una visione che semplifica i problemi complessi e unici che ogni individuo, come ogni collettività, affronta.

Questo tipo di attribuzione identitaria avviene principalmente per confronto, definendo il "loro" e quindi il "noi". La psicologia sociale ci viene in aiuto per capire alcuni meccanismi correlati a questo processo: nel percorso di definizione di un "noi" interno al gruppo di riferimento e un "voi" che comprende tutto il resto; in questa divisione accade che il proprio gruppo viene percepito come composto da individui unici, differenziati tra loro. Gli "altri" diventano un crogiolo indistinto cui è facile affibbiare questo o quell'abito.

Per fare un esempio molto banale: noi italiani sappiamo benissimo distinguere fra un Piemontese e un Calabrese: ne vediamo tutte le differenze, a cominciare da quelle linguistiche, che pure appartengono a una stessa lingua; al contrario gli "immigrati" sono un corpo unico, in cui difficilmente riusciremmo a distinguere differenze che non siano evidenti.

Questo tipo di visioni dividono semplicisticamente il mondo tracciando muri e confini, e di qualunque tipo siano, da qualunque colore politico provengano, hanno il difetto infinito di ridurre i vari attori, individui o collettività che siano, a masse amorfe di cui si intravedono a malapena i confini (si parla di Terzo Mondo, ma da chi e cosa è formato? Cina e India fanno parte del Terzo Mondo? E l'Africa sub-sahariana?).

Un altro aspetto che Sen affronta, in entrambi i volumi, è un aspetto molto importante, legato alla costruzione delle identità uniche. Questa costruzione passa di solito per la re-invenzione della cultura, delle tradizioni e finanche della storia di un popolo, ed è tesa a costruire quell'idea di unicità e incontaminatezza che concorrono a determinare identità univoche. Non è la prima volta in questo secolo che si stravolgono la storia e la cultura di un popolo per costruire e re-inventarne un'identità nuova, unica e pura. E il ricordo di ciò che è accaduto dovrebbe metterci in guardia da ciò cui possono portare queste visioni semplificate del mondo e della Storia. «L'identità può anche uccidere, uccidere con trasporto» è l'ammonimento di Sen.

Riguardo questo aspetto, Sen esprime più volte, in L'altra India, la sua preoccupazione per come il movimento nazionalista Indù (Hindutva, rappresentato in parlamento dal partito bjp) faccia leva sui sentimenti di orgoglio nazionalista del popolo indiano e di come cerchi di mal interpretare e reinventare la storia indiana a proprio favore. Ma non è solo l'India ad affrontare questo problema: anche la politica nostrana ne sa qualcosa.

Parlando sempre dell'India, e andando più indietro nella storia, Sen rileva e mette in luce il perverso meccanismo con cui gli indiani hanno tentato, una volta raggiunta l'indipendenza, di darsi un'identità che fosse "contro" quella cultura occidentale e inglese che li aveva oppressi in tanti anni di giogo coloniale, e che vedevano evidentemente come espressione di un'identità aliena, che doveva per forza essere "altra" dalla loro. Così, se l'Occidente era -o si vantava di essere- scienza e raziocinio, l'India doveva valorizzare spiritualità e misticismo, in una costruzione identitaria fatta per contrasto e assolutamente paradossale. Un esempio particolarmente divertente, nella sua assurdità, è quello che Sen riporta in entrambi i volumi a proposito della funzione trigonometrica seno (sinus in latino): in India tale termine fu introdotto nel XIX importandolo direttamente dall'occidente, e come tale fu visto come l'ennesima invasione nella cultura locale, specialmente dai fautori dell'istruzione indigena, se non fosse che la parola sinus, per varie traversie storiche e geografiche di una globalizzazione premoderna, deriva proprio dall'indiano.

In modo analogo a quanto accade per le identità collettive, le identità individuali subiscono la spinta di queste visioni che marcano e inventano linee di confine e differenze: gli individui vengono appiattiti, e sono portati ad auto-appiattirsi, su un'unica identità. E' da questo appiattimento generale che nascono gli scontri. Ci si focalizza su un'unica dimensione dell'individuo -quella religiosa, di questi tempi- e la si utilizza come spiegazione per tutto, anche con i buoni intenti di trovare soluzioni e dialogo laddove vi è rottura; non ci rendiamo conto, ci ammonisce Sen, che così facendo si contribuisce in realtà ad esasperare le divisioni, perché si contribuisce attivamente all'idea che quella sia l'unica dimensione importante di una persona, anzi: l'unica dimensione esistente. Di fronte ai focosi scontri religiosi non dovremmo tanto chiederci quale sia la natura più autentica di una fede o dell'altra, perché è sempre un modo unidimensionale di inquadrare il problema; bisognerebbe invece cercare di rafforzare, ad esempio, le istituzioni e il senso di appartenenza civile degli individui.

E' percorrendo la ricca storia e cultura indiana in, e facendone uso sapiente, che Sen tocca l'altro punto fondamentale della sua esposizione, e ci ricorda quello che dovremmo sapere e mai dimenticare: che l'insularità culturale non esiste; che nessuno, in nessuna parte del mondo e in nessun tempo, può dirsi immune da contaminazioni culturali. Sarebbe stato un danno indicibile per tutta l'umanità se i nostri antenati si fossero chiusi in loro stessi. Certo, è sempre esistito chi faceva degli altri un nemico, a scopi politici o economici che fossero, ma è altrettanto vero che la discussione pubblica, il confronto e l'apertura sono i motori fondamentali che muovono l'umanità fin dai suoi primi passi. Illudersi del contrario, illudersi che siano problematiche moderne, è un coprirsi gli occhi che porterà il mondo solo più indietro, e non servirà a risolvere i tanti problemi che affiggono l'umanità. Ed è in tempi come questi, in tempi "globalizzati" in cui ognuno di noi è sempre più dipendente da una rete di miliardi di persone, che questa illusione è ancora più dannosa.

In Identità e violenza l'ammonimento e l'appello di Sen all'uso della ragione sono ancora più forti. Sen affronta l'argomento con la trattazione lucida e razionale che lo contraddistingue: con una solida fiducia nella ragione individuale, da illuminista qual è. Si potrebbero certo muovere alcune obbiezioni alla sua analisi: prima di tutto che una società non è una semplice somma di individui, per cui, se anche gli individui fossero razionali -cosa che non è scontata- non è detto che la società nel suo complesso si comporti in maniera razionale. L'identità di un gruppo non è una semplice somma di identità individuali. Questo aspetto viene lasciato un po' in disparte da Sen: si appella alla razionalità dell'individuo, al fatto che ognuno di noi è formato da identità molteplici, che non siamo unici e univoci e che possiamo in fondo scegliere la nostra identità, ma forse tralascia quello che una trattazione più ampia e più mirata al problema potrebbe analizzare: le influenze che la collettività ha sull'individuo. Sen assume che ognuno si possa razionalmente autodeterminare, e quindi autodeterminarsi come molteplice, ma se così fosse si assisterebbe ai fenomeni di costruzione identitaria collettiva di cui sopra? Il nodo centrale risiede forse nello stesso nodo che sta alla base del pensiero economico di Sen: l'individuo può in effetti darsi più di un'identità? Ha le possibilità di farlo, le capabilities? Se lo sviluppo è libertà, per citare un'altra famosa opera di Sen, si può affermare dunque che uno sviluppo che sia veramente tale, debba dare agli individui la libertà di essere unici e molteplici, di darsi più identità; per quanto il problema delle visioni "a blocchi" del mondo sia assolutamente trasversali, è certo che se un individuo non ha la possibilità di pensarsi in altra maniera sarà più fragile e più soggetto a costruzioni mono-identitarie.

Al di là di queste osservazioni, il richiamo di Amartya Sen alla razionalità comune a tutti gli uomini, il suo spostare il focus dell'osservazione sulla molteplicità di ogni persona invece che sulla sua univocità, è quanto mai necessario nel mondo sempre più interconnesso in cui viviamo. E' da qui che dobbiamo partire: dalla consapevolezza di essere unici eppure molteplici, dalla pratica del dialogo e del dibattito, dell'analisi critica, se vogliamo diventare, come ormai si sente ripetere da ogni parte -pure un po' vanamente- cittadini del mondo; attori e non spettatori di quella globalizzazione costantemente citata, criticata o osannata, ma indubbiamente presente.

Homo sum: nihil humani a me alienum puto. (Terenzio, Heautontimoroumenos)

Lucia Ferrone

Thursday, March 5, 2009

Unirsi o perire! Un governo federale per l'Europa

Dopo moltissimo tempo torno finalmente ad intervenire sul blog, girando la mozione che il Comitato Federale della Gioventù Federalista Europea ha approvato nella sua ultima riunione a Verona. Più che di un documento politico, si tratta di una riflessione a breve-medio e lungo termine sulla strategia dei federalisti europei, sulla crisi strisciante della civiltà (e della civilizzazione) occidentale e globale e sull'inedito contesto storico che abbiamo l'opportunità (unica) di raccontare giorno dopo giorno.


Unirsi o perire! Un governo federale per l'Europa

Non perdiamo l'occasione delle Elezioni europee del 2009

Il Mondo e l'Europa versano in una gravissima crisi economico-finanziaria che si è aggiunta a quelle, non meno gravi, energetica ed ambientale. Oltre lo spettro di una nuova, grandissima, depressione, si aprono però spazi per una nuova stagione politica cosmopolita e per l'adozione di soluzione sovranazionali innovative e coraggiose.

Gli stati europei hanno dimenticato la lezione delle guerre mondiali e lo spirito ideale che animava i primi passi del processo di unificazione; con lo sguardo rivolto al breve periodo e ai piccoli interessi nazionali si stanno pericolosamente muovendo in ordine sparso, ciascuno cercando di risolvere, temporaneamente e populisticamente, problemi di ordine globale e strutturale. In particolare, è il declino dell'ordine monopolare gestito dagli Stati Uniti a rendere inedita la situazione ed urgenti le soluzioni; ma la costruzione di un nuovo ordine multipolare non è un passaggio semplice e presenta molti rischi, primo fra tutti, di cui notiamo con estrema preoccupazione i segnali, il ritorno ad un miope protezionismo persino nell'ambito degli stati europei. Questi ultimi sarebbero i primi a pagarne conseguenze negative in un contesto di grandi potenze globali mentre, dotandosi della capacità di una risposta europea, avrebbero invece la possibilità di partecipare efficacemente alla gestione multipolare del processo di globalizzazione e di indirizzarla verso un modello democratico e regolamentato.

L'Unione Europea, che rappresenta il più avanzato esperimento di superamento della sovranità statale esclusiva al mondo, può e deve porsi come modello per l'unificazione delle grandi regioni del mondo, in vista dell'unità politica dell'intero genere umano. Questo esempio potrà essere fatto valere soltanto ad una condizione: l'UE deve completare la propria unificazione federale, dotandosi del potere adeguato per agire sullo scenario internazionale e per influenzare positivamente le dinamiche – economiche, politiche e culturali – più pericolose per lo sviluppo e la convivenza pacifica dell'umanità. È necessaria un'Unione più democratica ed un governo federale che sia in grado di dialogare con le altre aree del mondo, dimostrando i benefici ottenuti grazie non al diritto della forza, ma alla forza del diritto e di un modello sociale che coniuga la libertà ed il mercato con la solidarietà tra stati e tra cittadini.

Le prossime elezioni europee sono un appuntamento fondamentale, che l'Europa può sfruttare per tornare ad essere soggetto e non oggetto della storia, ma soprattutto per ridare un ruolo al voto dei propri cittadini; in caso contrario diventeranno l'ennesimo sprezzante schiaffo alla democrazia e a tutti gli europei, l'ennesima occasione sprecata. Per questo motivo la Gioventù Federalista Europea chiede:

- ai partiti europei di indicare il loro candidato alla guida della Commissione europea e inserire nel loro programma elettorale un chiaro impegno per rilanciare il processo costituente e istituire un governo federale tra i paesi dell'Unione europea che lo vorranno;

- ai candidati che si impegnino ad esercitare tutti i poteri di cui dispone già oggi il Parlamento europeo, in particolare quelli relativi all'approvazione del bilancio, alla nomina del Presidente della Commissione e al voto di sfiducia della Commissione, se gli impegni assunti di fronte agli elettori non verranno rispettati;

- ai governi nazionali l'impegno a riaprire – anche da parte di un'avanguardia di Stati – il processo di revisione istituzionale attraverso una convenzione costituente che abbia il mandato di redigere una Costituzione federale;

- a tutte le forze della società di recuperare la consapevolezza riguardo le finalità ideali del processo di unificazione europea, l'unica via possibile per realizzare un mondo più giusto e pacifico.

Senza una vera Federazione Europea i cittadini europei sono condannati all'impotenza. L'inadeguatezza degli stati nazionali aprirà la strada al populismo, alle politiche protezioniste e agli orrori che pensavamo cancellati dalla scena della storia. Esiste il rischio non trascurabile che la crisi economica e finanziaria in corso rappresenti il primo passo verso una crisi della democrazia in Europa ed il preludio della crisi strutturale – e morale – della civiltà contemporanea

Coloro che hanno a cuore il futuro dell'umanità non possono rassegnarsi di fronte alle scelte miopi della classe politica europea; le elezioni europee del prossimo giugno devono rappresentare il primo simbolo della reazione politica alla crisi globale, e la scelta definitiva tra i due destini possibili per l'Europa ed il Mondo: Unirsi o Perire!