Saturday, December 20, 2008

Gli Animal Spirits della Network Society


Nei vari post ho sottolineato più volte il fatto che ogni evento, per quanto critico, debba essere osservato sotto la doppia lente della minaccia e dell'opportunità. In un mondo dinamico e complesso, plurale e "politeista", ogni catastrofe (per usare l'accezione di R. Thom) può aprire nuove strade, nuove possibilità prima inesplorate; allo stesso modo ogni novità positiva può nascondere insidie ed evolversi secondo percorsi perversi e distorti.

Per questo motivo mi è sembrata significativa ed interessante l'idea alla base di Animal Spirits, l'ultimo libro di Matteo Pasquinelli (media-attivista, animatore della ml rekombinant, ricercatore ad Amsterdam e a Londra); la rete -- e più in generale la filosofia dei "creative commons" -- non è soltanto lo spazio di nuove forme di democrazia, informazione e ricombinazione creativa, sperimentazioni di condivisione e produzione libera. Dietro la retorica della "free culture" si nascondono insidie e "mostri", che si appropriano e trasformano in continuazione le nuove idee e le inedite logiche che emergono dalla real-time society globale fondata su internet (qui non trattiamo di altri problemi connessi con internet, come il digital divide).

Dalla decrizione del libro: After a decade of digital fetishism, the spectres of the financial and energy crisis have also affected new media culture and brought into question the autonomy of networks. Yet activism and the art world still celebrate Creative Commons and the 'creative cities' as the new ideals for the Internet generation. Unmasking the animal spirits of the commons, Matteo Pasquinelli identifies the key social conflicts and business models at work behind the rhetoric of Free Culture. The corporate parasite infiltrating file-sharing networks, the hydra of gentrification in 'creative cities' such as Berlin and the bicephalous nature of the Internet with its pornographic underworld are three untold dimensions of contemporary 'politics of the common'. Against the latent puritanism of authors like Baudrillard and Zizek, constantly quoted by both artists and activists, Animal Spirits draws a conceptual 'book of beasts'. In a world system shaped by a turbulent stock market, Pasquinelli unleashes a politically incorrect grammar for the coming generation of the new commons.

Le opportunità create dalla network-society nascondono minacce, in una tensione irriducibile tra la forza formalizzante di coloro che tentano di inquadrare le novità dentro gli schemi esistenti di potere (si veda il controllo delle multinazionali su internet, lo spam, la capacità potenziale di Google di determinare la realtà -- "se non sei su Google non esisti" --, oltre alle dinamiche di controllo sulle identità e sui corpi esercitabili grazie all'ingente massa di informazioni private in circolazione), e la spinta creativa di coloro che hanno trovato nella rete e nelle sue nuove "regole del gioco" lo spazio per sperimentare nuove forme di socialità, partecipazione, formazione, vita.

Friday, December 19, 2008

Cecco d'Ascoli

Non può morir chi al saver s’è dato,
Né vive in povertate né in difetto,
Né da fortuna può essere dannato;
Ma questa vita e l’altro mondo perde
Chi del savere ha sempre dispetto
Perdendo il bene dello tempo verde.
Chi perde il tempo e virtù non acquista,
Com’più ci pensa, l’alma più sattrista.

I dilemmi della crisi

Ouverture: sui dilemmi e sulla crisi

La crisi genera dilemmi, perché l’incertezza e il disorientamento rendono plausibili nuove strade da seguire, mai percorse o finora semplicemente evitate. L’attuale sconvolgimento che va sotto il nome di crisi, prima finanziaria, poi economica, infine -- plausibilmente -- valutaria (è sufficiente vedere ciò che accade giorno dopo giorno alla sterlina inglese, in piena spirale svalutativa), è stata correttamente definita una “once-in-a-lifetime crisis”, a sottolineare la componente di cambiamento strutturale che l’accompagna. Non c’è contingenza in questa crisi, ma soltanto trasformazione radicale, transizione da un disordinato ordine mondiale ad un nuovo, forse più -- forse meno -- caotico ordine globale.

La crisi genera dilemmi e paradossi, quando gli effetti collaterali vengono additati come le cause prime del “terremoto”, dai global imbalances estremi alla de-regolazione (e mal-regolazione) scellerata, mentre le cause prime vengono messe da parte come effetti collaterali, sciocchezze delle quali non curarsi, dalla transizione verso una nuova “egemonia” asiatica, all’impossibilità di perpetuare un modello di società basata sulla chiusura culturale, sull’insostenibilità ambientale, sul consumo sfrenato e sugli idrocarburi, sulla concezione positivista di un progresso e di una crescita emancipatrice e senza limiti.

La crisi genera dilemmi e regresso intellettuale, quando la risposta al tracollo di un sistema fondato sul tentativo di estendere il “mercato” ad ogni fase, ad ogni momento e ad ogni aspetto della vita umana -- compresi i sentimenti, il patrimonio genetico, l’immaginazione -- è basata essa stessa sulle logiche del mercato. La stessa pochezza politica e morale si ritrova dal lato opposto del pendolo che oscilla fra mercato e stato, nel campo della “pianificazione”: crisi diventa la parola chiave per il “potere senza potere” nazionale e si tramuta nel grimaldello per scardinare ogni diritto, per eliminare ogni “sapere assoggettato”, per annullare ogni dominio delle regole condivise, per riportare in auge il dominio del sospetto, del populismo, della violenza “giusta”, per imporre l’unica verità possibile.


Chiusura: un valzer dell’inconsistenza

La crisi che stiamo vivendo è una danza su di una splendida barca che affonda, è una crisi dei corpi e delle menti, è un rilassato oblio di inconsapevolezza che si muove sulle note di un valzer dell’inconsistenza, un oblio quasi completamente ignaro delle voci delle poche cassandre attente, rivoluzionarie e cosmopolite. In ballo non c’è il capitalismo, che sulle proprie contraddizioni, catastrofi e rivoluzioni fonda la propria forza e persistenza, ma soltanto il capitalismo come lo conosciamo oggi; in ballo non ci sono solamente le conquiste sociali di secoli di lotte. Nel grande gioco della crisi è in ballo la capacità della politica di suggerire una direzione, anche se plurale e politeista, alla comunità umana, nonché la possibilità della politica stessa di tornare ad essere lo strumento principale che gli uomini si sono dati per governare il conflitto e condividere il potere.

Dopo la crisi, il governo sarà ancora la più grande riflessione sulla natura umana, come diceva Madison, uno dei padri del federalismo americano? Saremo in grado di non soccombere di fronte a noi stessi e alle nostre creazioni, uniche vere minacce alla Pace Perpetua? Riusciremo a scardinare i duri sedimenti istituzionali, culturali ed economici che oggi ci offuscano la vista e rendono il mondo una grande “fiera delle non-vanità”? Saremo in grado di sfruttare appieno la logica aperta della nostra creatività, i campi inesplorati del nostro sapere e della nostra fantasia, per trovare nuove strade, nuove forme e nuovi spazi di ampio respiro per l’agire politico?

Tra il rischio di un olocausto nucleare e quello di un suicidio ecologico, l’umanità può ancora dimostrare che la sua intelligenza superiore non è un errore dell’evoluzione (E. Mayr) e che la politica non è ormai soltanto un triste valzer dell’inconsistenza, perché è senz’altro vero che in ogni momento di crisi si nascondono le premesse e le opportunità per creare un mondo migliore. Come suggerisce il poeta Hölderlin, là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che si salva.

Wednesday, December 3, 2008

Connettere il patrimonio culturale, ma senza l'Italia


Un breve post per segnalare un fatto interessante: poco dopo il suo lancio ufficiale, Europeana, la grande biblioteca-museo-archivio virtuale e comune per tutti cittadini europei, ha visto chiudere il proprio sito. Il motivo? Nessun attacco hacker, nessun malfunzionamento tecnologico, nessuna interruzione di fondi da parte dell'Unione Europea, ma soltanto un grande crash dei server dovuto alla troppe visite, stimate nell'ordine di 10 milioni di accessi singoli all'ora. Dal sito del progetto: "popularity brings down the site - We launched the Europeana.eu site on 20 November and huge use - 10 million hits an hour - meant it slowed to a crawl. We are doing our best to reopen Europeana.eu in a more robust version." Un vero successo per tutti i sostenitori dell'Europa, della cultura e della "Repubblica delle Idee"!

Allo stesso tempo un commento sul blog "Europe" di Andrea Bonanni (Repubblica.it) ci offre una prospettiva più politica o, se vogliamo, più demoralizzante, legata all'affaire Europeana; di seguito una citazione del suo post:

Il ministro per le politiche comunitarie, Andrea Ronchi, ha lanciato un perentorio monito alle istituzioni europee sull'uso della lingua italiana (www.politichecomunitarie.it): costituito una task force che vigila sui siti comunitari…segnalateci siti comunitari senza la nostra lingua laddove questo risulti effettivamente penalizzante. Tutte le informazioni saranno raccolte in un dossier che servira' a rafforzare le nostre rivendicazioni>. Lo accontentiamo subito. La Commissione ha appena lanciato Europeana [...] [...] Ebbene, nella lista delle novanta istituzioni europee che partecipano all'iniziativa non c'è una biblioteca italiana, non un centro di ricerca o una rappresentanza nazionale italiana. Ci sono tutte le librerie nazionali (perfino quella dell'Islanda e del Liechtenstein) tranne quella italiana. Gli unici siti italiani presenti sono la Fondazione Federico Zeri, il museo di storia della scienza di Firenze e l'istituto per i beni artistici e culturali dell'Emilia Romagna. Istituzioni di prestigio, d'accordo, ma che non rendono certo l'idea del peso della cultura italiana nella creazione di una identità europea. L'assenza di istituzioni culturali che dipendono direttamente dallo Stato italiano è a dir poco scandalosa, soprattutto da parte di un governo che rivendica orgogliosamente i meriti della nostra cultura e della nostra lingua.

Tuesday, December 2, 2008

Sui rischi e sulle opportunità: dalla crisi finanziaria alla finanza islamica, fino al ruolo della Cina


Non è così banale riuscire a vedere in ogni rischio anche un'opportunità. Eppure questo è ciò che accade continuamente in tutto il mondo, specialmente in questi anni di transizione. Quando le crisi colpiscono in modo "non democratico" e non omogeneo a causa delle asimmetrie che nascono sui terreni della politica, dell'integrazione economica, della geografia e del declino egemonico, le prospettive ed i punti di vista si moltiplicano in un'esplosione caleidoscopica di ricchezza interpretativa della realtà.

Primo esempio: la crisi finanziaria che continua a soffocare il "turbocapitalismo" occidentale apre prospettive molto interessanti per la finanza islamica. Quest'ultima, con le sue regole stringenti, l'impossibilità di creare denaro dal denaro e la stretta connessione con le attività produttive materiali potrebbe elevarsi a modello da imitare per ricondurre la bolla finanziaria entro i binari della sostenibilità economica, sociale e ambientale, suggerendo le nuove regole del gioco dell'economia internazionale (Loretta Napoleoni, nel suo libro "Economia Canaglia" - ed. il Saggiatore, 2008 - suggerisce che i valori fondativi di un nuovo ordine globale vanno cercati proprio nella finanza islamica).

Così, mentre un Islam da sempre identificato con il radicalismo ha l'opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" (come direbbero Rajan-Zingales), il modello più occidentalista, quello americano, rischia di franare su sè stesso a causa di scelte politiche e non dal sapore molto "religioso". Joseph Stiglitz riassume in modo intrigante il declino, l'"immoralità" statunitense e l'irresponsabilità nei confronti del mondo intero non attraverso i sette vizi capitali, quanto piuttosto attraverso la miopia e il conservatorismo disciolti nei sette deficit capitali (altro che i deficit gemelli delle teorie macroeconomiche!): il deficit dei valori, il deficit del clima, il deficit dell'uguaglianza, il deficit della responsabilità, il deficit del commercio, il deficit del bilancio ed infine il deficit degli investimenti.

Secondo esempio: capovolgendo quando detto finora, là dove gli occidentali vedono un'opportunità, altri paesi - la Cina in particolare - vedono, se non un rischio, comunque un avvenimento non troppo rilevante. Il successo di Barack Obama è in questo senso emblematico: simbolo della vittoria della democrazia, degli ideali e della passione, nonché promotore dell'idea che una speranza ed un cambiamento di natura quasi "universale" siano possibili, la vicenda del neo-presidente eletto americano è quasi assente dal dibattito politico cinese; segno di una emergente autonomia politica e intellettuale cinese, oltre che del crescente fastidio asiatico verso il western globalism di un'America ormai in ritirata? Come osserva su ResetDoc Daniel Bell, professore di teoria politica all’Università Tsinghua di Pechino, in Cina, riguardo l'elezione di Obama, la popolazione

... sembra sorprendentemente indifferente. Sui siti web, ci sono pochi dibattiti che riguardano la politica americana e la gente sembra più interessata a parlare dei negoziati tra la Cina e i leader di Taiwan. Sì, i risultati elettorali americani sono stati trasmessi dalla televisione di Stato cinese senza alcun evidente pregiudizio – come accadde invece quattro anni fa – ma questo significa semplicemente che il regime ha meno da temere dall’esempio americano. Nel 2004, l’invasione dell’Iraq era ancora fresca nella mente dell’opinione pubblica e gli Stati Uniti erano messi in relazione più con le aspirazioni egemoniche che con gli ideali democratici. Oggi, il tracollo finanziario ha riabilitato la critica marxista al capitalismo e le lotte “sovrastrutturali” per la leadership politica non suscitano grandi passioni.

In aggiunta a quanto detto finora, la crisi finanziaria rappresenta per la Cina una grande sfida (aumenta la disoccupazione, diminuisce la crescita) ma anche l'opportunità per emergere definitivamente come nuova iperpotenza globale. Tralasciando il dibattito sulla possibilità di un futuro ordine multipolare fatto di molti centri e di molte periferie piuttosto che di una sola potenza egemone, è chiaro che oggi l'equilibrio precario dell'economia mondializzata si regge sulle spalle dei cinesi: dalla produzione a basso costo al finanziamento degli agonizzanti consumi americani, la Cina tiene le redini del capitalismo e, potenzialmente, potrebbe stringerle ancora di più. E' certamente vero che in questi casi non sempre il "creditore" è colui che vince,nel grande gioco delle relazioni internazionali, ma lo squilibrio esistente oggi non potrà durare a lungo e, come dice giustamente Romano Prodi sul Messaggero del 30 novembre u.s., se prima solo il capitalismo poteva salvare la Cina (quella di Deng Xiaoping e dell'"arricchirsi è onorevole"), adesso è solo la Cina che può salvare il capitalismo.

Forse la familiarità di quest'ultima frase rispetto a quanto detto precedentemente sulla finanza islamica e sulla sua opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" non nasce a caso: il mondo ha bisogno di nuove idee, nuovi punti di vista e nuove prospettive per uscire dal vicolo cieco della crisi e per tornare a vedere delle opportunità là dove oggi regnano soltanto rischi e paure. Ed è un peccato che l'Europa continui senza vergogna a vantarsi del proprio status di "autismo politico" nel momento in cui tutto il mondo avrebbe bisogno di un'Unione democratica e decisa, sicura ed aperta, una Federazione Europea capace di dare un nuovo slancio al lungo e difficile viaggio dell'umanità verso un futuro di Pace Perpetua.