Tuesday, November 18, 2008

La Cosmopolis e il Politeismo dei Valori


Sul numero di novembre della rivista "The Federalist Debate" ho pubblicato un breve essay dal titolo "Federalism and Polytheism of Values"; di seguito spiego brevemente (e integro) l'idea ed il ragionamento alla base dell'articolo.

Come si concilia la necessità di un governo mondiale, capace di dare un indirizzo politico alla globalizzazione (necessità sempre più palese dopo la crisi finanziaria e prima della crisi ecologica che arriverà), con l'obbligo morale di salvaguardare la pluralità delle culture, l'universo dei fini assiologici e delle filosofie della storia che ogni comunità elabora in base alla propria evoluzione, ai propri costrutti linguistici, alle influenze dell'ambiente e della geografia?

Dato che ogni cultura, per quanto piccola, debole o periferica, non subisce mai passivamente i tentativi egemonici e universalistici promossi dal "centro" ma adotta sempre e comunque un atteggiamento di reazione e ricombinazione sincretica e creativa delle istanze di novità (anche se imposte), probabilmente il modo migliore per far nascere un governo mondiale quanto più condiviso e condivisibile è quello di concentrarsi soltanto sui meccanismi istituzionali, sul progetto architettonico ancora da riempire di contenuti valoriali. Quali istituzioni possono creare un framework generale di co-abitazione, "indossabile" senza costrizioni da realtà differenti?

A mio avviso il Federalismo mondiale (World Federalism), inteso come modello di governo multi-livello basato sulla sussidarietà, è forse l'unica forma organizzativa capace di far coesistere l'uno ed il tutto, il generale ed il particolare, imbrigliando la complessità in una rete istituzionale che non annulli le affascinanti e molteplici forme attraverso le quali ogni comunità umana ha provato a rappresentare sè stessa e l'"altro".

La Federazione mondiale non vedrebbe la luce sulla base di un qualche valore generale o di un fine condiviso della storia, quanto piuttosto per motivi molto meno nobili: sarebbe uno strumento funzionale alla risoluzione di problemi globali, che devono essere affrontati dal "global village" all'unisono, pena l'estinzione dell'intero genere umano. Per evitare un olocausto nucleare e/o ecologico (che questa volta non risparmierebbero nessuno, complici l'integrazione economica e la pervasività della tecnologica a scala planetaria) servono alcuni, limitati, beni pubblici globali (global public goods): la Pace (impossibilità di conflitto), regole per il mercato, strumenti per lo sviluppo sostenibile e l'equità, un sistema monetario che non incarni la volontà di una singola iperpotenza, accesso libero ai beni comuni (acqua, aria, energia).

Il cantiere della riflessione sulle modalità politiche capaci di connettere il globale al locale in modo democratico, plurale e non-totalizzante è ancora aperto; quali sarebbero i micro-fondamenti della proposta di una federazione mondiale (ovvero, sulla base di quale legittimità si reggerebbe, a parte la consapevolezza di problemi comuni per tutta l'umanità)? Come sfruttare al meglio la teoria delle reti, l'analisi dei sistemi, la filosofia politica e morale, il "mechanism design", l'economia, l'antropologia ecc. per raffinare la proposta istituzionale? Detto questo, il pensiero e l'azione restano due campi - strettamente connessi - che seguono logiche diverse: se la teoria va avanti a formulare proposte e possibilità sempre migliori e più complesse, la nostra azione quotidiana non può invece attendere l'esito del perfezionamento teorico: battersi per la federazione mondiale, per la Pace Perpetua, per le istituzioni di un mondo più giusto, è l'unico modo per ridurre quella contraddizione fra fatti e valori che fa di noi dei militanti.

Thursday, November 13, 2008

Threats and Opportunities of a "Bretton Woods" number II


In vista della riunione del G20 di sabato prossimo, ho pubblicato un nuovo articoletto su Eurobull.it, dal titolo "Una Nuova Bretton Woods, ma solo se...", nel tentativo di mettere in evidenza non solo le opportunità, ma anche i rischi impliciti nella proposta, ormai sulla bocca di tutti, di una possibile riforma delle regole del gioco dell'economia e della finanza mondiale. Affinchè le riforme, sopratutto se di portata globale, siano veramente una boccata d'aria e "un nuovo inizio", è necessario aver ben chiari quelli che sono ad oggi gli equilibri di potere e la forza relativa di ogni attore in gioco i quali, come è accaduto nella conferenza originale di Bretton Woods, tenteranno di far oscillare dalla propria parte la lancetta dei guadagni, della visibilità e dei risultati.

Una piccola aggiunta all'articolo: come sempre i capi di stato e di governo dei paesi occidentali, sostenitori indefessi della conservazione, proveranno a mascherare l'immobilismo e l'incosistenza delle loro proposte come un velo di mediaticità rivoluzionaria, perseverando ancora una volta nell'impossibile tentativo di andare avanti restando completamente fermi. Ma se anche la Cina deve richiamare in patria il proprio ministro della finanza Xie Xuren, impegnato in una conferenza in Perù, per risolvere problemi economici (Nov. 7 - Bloomberg - China's Finance Minister Xie Xuren was called back from an international economic conference in Peru before the meeting began, following orders from Beijing to help resolve problems at home, an organizer of the event said...), questo è forse il momento per iniziare a pensare seriamente a delle possibili soluzioni alla crisi. Una crisi che non è solo della finanza, ma che riguarda intimamente la struttura della comunità internazionale, il ruolo degli stati, la sproporzione della dimensione produttiva rispetto a quella delle possibilità di controllo (democratico e non), la capacità dei cittadini di reagire alle sfide dell'ecologia, della convivenza multiculturale, dell'autocontrollo del consumo sfrenato e senza senso.

Wednesday, November 12, 2008

Il ritorno dell'intelligenza

Segnalo un pezzo di questo interessante articolo di Nicholas D. Kristof, apparso ieri su Repubblica (tradotto dal New York Times) e dedicato (come la gran parte degli articoli degli ultimi giorni) ad Obama. La prospettiva questa volta è però più "intelligente", e sottolinea come l'elezione del primo presidente afroamericano rappresenti anche la fine di una politica apertamente populista e anti-intellettuale.


"[...] non possiamo risolvere le sfide dell'istruzione se, secondo le statistiche, gli americani credono all'evoluzione tanto quanto ai dischi volanti, e quando un quinto di essi crede fermamente che sia il Sole a girare intorno alla Terra. Quasi la metà dei giovani intervistati per un sondaggio nel 2006 ha dichiarato che non è necessarío conoscere l'ubicazione dei Paesi nei quali si verificano avvenimenti importanti: ciò sarà sicuramente di sollievo a Sarah Palin, che secondo Fox News pensava che l'Africa fosse un Paese e non un continente.

Probabilmente John Kennedy è stato l'ultimo presidente a non vergognarsi della propria intelligenza e del fatto di aver nominato a far parte dei proprio governo le menti migliori dell'epoca. In tempi a noi più recenti, abbiamo avuto alcuni presidenti brillanti e colti che hanno fatto di tutto per tenere nascoste le loro qualità. Richard Nixon è stato un intellettuale che nutriva odio verso sé stesso, mentre Bill Clinton ha tenuto nascosto il suo fulgido ingegno dietro agli aforismi popolari sui maiali. Quanto a Bush, ha adottato l`anti-intellettualismo come vera e propria politica dell'Amministrazione, respingendo ripetutamente il contributo di persone competenti (dagli esperti di Medio Oriente ai climatologi più accreditati, agli studiosi della riproduzione). Bush è brillante nel senso che si ricorda fatti e facce: nondimeno non credo di aver mai intervistato nessuno che apparisse altrettanto disinteressato nei confronti di qualsiasi concetto.

Nella politica americana è almeno dai tempi della campagna per la presidenza di Adlai Stevenson negli anni Cinquanta che è uno svantaggio apparire troppo colti. Essere riflessivi equivale a essere considerati imbranati. Prendere decisioni con attenzione significa essere dei pappamolle. (Certo, non giova sapere che gli intellettuali sono spesso tanto pieni di sé quanto di idee. Si racconta che dopo un discorso molto profondo, un ammiratore tra la folla gridò a Stevenson: «Lei avrà il voto di ogní americano in grado di pensare!» e che Stevenson di rimando gli abbia detto: «Non mi basta: mi serve una maggioranza»). .

Ma i tempi forse stanno cambiando. Come potremmo spiegare altrimenti l'elezione nel 2008 di un professore di legge che ha studiato in un'università dell'Ivy League e che ha la sua lista di filosofi e poeti preferiti? [...]

James Garfield era in grado di scrivere simultaneamente con una mano in greco e con l'altra in latino; Thomas Jefferson fu uno studioso e inventore straordinario; John Adams era solito portarsi sempre appresso un libro di poesia. Ciò nonostante, furono tutti surclassati da George Washington, uno dei meno intellettuali tra i nostri primi presidenti.

Malgrado ciò, mentre Obama si accinge a trasferirsi a Washington, auspico con tutto il cuore che la sua fertile mente possa introdurre un nuovo modo di essere nel nostro Paese. Forse verrà presto il giorno in cui i nostri leader non dovranno più sentirsi in imbarazzo e in preda alla vergogna quando si scoprirà che hanno un cervello in testa."

Monday, November 10, 2008

Le mancanze della Sustainomics

Recentemente ho avuto l'occasione di ascoltare, ad un convegno organizzato dalla Provincia di Venezia e dal World Political Forum di Mikhail Gorbachev, l'intervento di Mohan Munasinghe, vice-presidente dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change - ovvero il panel di scienziati che ha condiviso il premio Nobel per la Pace con il più mediatico Al Gore) e chair del MIND (Munasinghe INstitute for Development); nel suo intervento sosteneva la necessità di rendere lo sviluppo più sostenibile, incorporando una nuova consapevolezza ecologista nei comportamenti umani ma sopratutto introducendo una serie di variabili di contesto all'interno dei modelli economici e di valutazione delle policy, variabili tradizionalmente considerate come esogene o ininfluenti nei modelli economici neoclassici. Il suo approccio, chiamato sustainomics, è un tentativo sincretico di riunificare gli studi economici con strumenti d'analisi propri dell'approccio dello sviluppo sostenibile.

Purtroppo, come accade ad una buona parte degli studiosi di problemi ambientali, la proposta appare più che altro una raccolta quantitativa di metodi, idee e strumenti correttivi, una opportuna complicazione di modelli troppo astratti o semplicistici, piuttosto che una nuova prospettiva qualitativa, capace di sfruttare i paradossi ed i limiti delle analisi tradizionali per rompere gli schemi ed indigare la cause più profonde della questione. E' vero, normalmente ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità, ma ciò che manca veramente ad approcci come quello della sustainomics è una riflessione sulle asimmetrie di potere che stanno dietro ai processi di cambiamento climatico e allo sfruttamento dell'ambiente.

Non basta la critica all'economia mainstream e all'antiecologismo economicista. Non è sufficiente andare oltre il particolarismo e al meccanicismo introducendo elementi di analisi dei sistemi, studio degli effetti di retrozione e feedback, attenzione al disequilibrio generato da ogni singola variabile. Se non guardiamo al modo in cui le dimensioni ambientale, sociale ed economica si intrecciano con le maglie del potere e della politica, anche un approccio orizzontale e mutuato dalle scienze della complessità, volto alla ricerca delle determinanti "distribuite" del problema del riscaldamento globale, risulterà incapace di essere esplicativo fino in fondo.

La crisi ambientale globale e, ancora più importante, la percezione della sua gravità e portata generale, sono fatti di natura estremamente politica. Politiche (e sociologiche) sono le cause, dalla spinta al consumo e alla domanda infinita (per sostenere l'industrializzazione di massa prima ed il mercato multinazionale on demand poi) alle distorsioni del mercato dovute alla competizione fra la potenze, dalle strategie di conservazione dell'egemonia portate avanti dagli USA alle piccole e grandi "ragion di stato" capaci di nascondere la necessità di global public goods per l'intera comunità umana dietro la mistificazione nazionalista. Politiche sono anche le conseguenze del "climate change": la differente posizione geografica dei vari stati implica differenti sfide, differenti incentivi e differenti guadagni (si, qualcuno potrebbe anche guadagnarci dal riscaldamento globale) dall'implementazione di soluzioni positive al problema; tutto ciò rende estremamente problematica l'attuazione di un patto mondiale per lo sviluppo sostenibile, almeno fino a quando durerà la divisione del pianeta in stati nazionali sovrani, evidente contraddizione rispetto alla globalizzazione dell'economia e alla contaminazione planetaria delle culture.

Il mutamento climatico è non democratico per sua natura; non è equo nè uguale per tutti proprio perchè colpisce i diversi popoli con intensità differenti, a seconda della loro abilità nell'adattamento e della fortuna/sfortuna geografica; la politica ed il potere si inseriscono nelle fratture aperte da questa non democraticità rafforzando la polarizzazione, lo sfruttamento e la dipendenza e rendendo il mutamento ancora più asimmetrico e pericoloso. Se gli studiosi di sustainomics non inizieranno a rendersi conto del gap di potere che sta dietro i rapporti fra le numerose variabili oggetto del loro studio, le loro proposte di cambiamento mancheranno sempre e comunque il bersaglio. E' la politica a dover recuperare la capacità di guidare l'umanità verso un'integrazione pacifica e sostenibile, gestendo il potere, quel Giano bi-fronte dal quale chi vuole cambiare la realtà non può prescindere, come la più grande forza di progresso e non come lo strumento di miopi scelte reazionarie. Altrimenti per il nostro pianeta non resterà nemmeno un piccolo spiraglio di futuro, rendendo vane le speranze e le battaglie di tutti coloro che hanno creduto davvero in un altro mondo possibile, in una società pacifica, equa e in armonia con l'ambiente.

Wednesday, November 5, 2008

A More Perfect Union

L'elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Obama è prima di tutto un evento profondamente simbolico: per il dialogo fra culture, per il "peccato originale" del razzismo americano, per la carica emotiva che ha accompagnato questa campagna elettorale, per mille altri motivi.

Mentre l'ondata neoliberista si spegne lentamente, colpita dai suoi stessi errori e dagli effetti delle crisi ambientale e finanziaria, Barack Obama introduce un nuovo linguaggio, un nuovo approccio, una nuova speranza nel sogno americano; le parole chiave del suo successo sono state hope e change, speranza e cambiamento, capacità di restituire anche all'uomo della strada la fiducia in una visione positiva del futuro, lontana sia dal manicheismo imperialista che dal nichilismo da "crisi della civiltà". Probabilmente il discorso più rappresentativo dell'anima "istituzionale" americana e maggiormente carico di contenuti politici fatto dal neo-presidente è quello tenuto il 18 marzo scorso al Philadelphia, dal titolo A More Perfect Union: in quella città, respirando l'atmosfera della Convenzione Costituente del 1787, Barack Obama ha ridato credibilità a quell'opera incompleta, a quell'"improbable experiment in democracy" che sono gli Stati Uniti d'America.

Purtroppo esiste anche una faccia negativa della medaglia, rappresentata questa volta da ciò che non è stato detto, dagli eventi lasciati in disparte; l'euforia per le elezioni non deve far dimenticare che l'amministrazione Bush ha ancora quasi due mesi di governo, durante i quali cercherà di sfruttare "al meglio" il tempo rimasto. Citando l'editoriale del New York Times del 4 novembre scorso:

While Americans eagerly vote for the next president, here's a
sobering reminder: As of Tuesday, George W. Bush still has 77 days
left in the White House — and he's not wasting a minute.

President Bush's aides have been scrambling to change rules and
regulations on the environment, civil liberties and abortion rights,
among others — few for the good. Most presidents put on a last-minute
policy stamp, but in Mr. Bush's case it is more like a wrecking ball.
We fear it could take months, or years, for the next president to
identify and then undo all of the damage.

[...]

We suppose there is some good news in all of this. While Mr. Bush
leaves office on Jan. 20, 2009, he has only until Nov. 20 to
issue "economically significant" rule changes and until Dec. 20 to
issue other changes. Anything after that is merely a draft and can be
easily withdrawn by the next president.

Unfortunately, the White House is well aware of those deadlines.


Tornando alle elezioni c'è un'altra questione significativa da sollevare, un punto che va al di là dell'Oceano Atlantico per toccare alla radice la crisi del processo di integrazione europea: gli europei, e in particolare la classe politica, hanno molto da imparare da quello che sta accadendo in questi giorni negli USA, qualunque sarà l'effettivo proseguimento di questa nuova avventura umana. Non si possono vincere le sfide politiche nel tempo della globalizzazione senza offrire ai cittadini dei sogni nei quali credere e dei simboli intorno ai quali la comunità può ricostruire la propria identità condivisa; servono nuovi orizzonti e un nuovo coraggio politico, servono proposte forti e democratiche. Solo seguendo l'esempio della reazione americana l'Europa potrà fondarsi come Federazione, unita nelle sue diversità. E, magari, anche la futura Costituzione Federale Europea potrà iniziare con le parole: "We the people, in order to form a more perfect union...".

Commenti impossibili e dissonanza cognitiva

Considerato che blogger non permette ormai da un paio di giorni di inserire commenti ai posts per colpa di problemi tecnici a me tutt'ora sconosciuti, "allego" in fondo a questo messaggio poche ma significative righe che mi ha inviato Lucia Ferrone riguardo le celebrazioni del 4 novembre ed il revival nazionalista. Quest'ultimo sarebbe da intendersi come il risultato di decisioni e percezioni falsate da un forte stato di dissonanza cognitiva in cui vivrebbero i cittadini europei (italiani in primis). Non posso che trovarmi completamente d'accordo con quest'analisi.

Il mio articolo sulla "dissonanza cognitiva" al quale Lucia si riferisce risale alla vittoria della coalizione Pdl-Lega alle ultime elezioni italiane e tenta di fornire una spiegazione dell'accaduto un po' fuori dal mainstream dei commenti politologici; potete trovarlo qui integralmente, mentre di seguito ne incollo un estratto:


«… questa teoria (ndr: fondata sul contributo del professore e psicologo sociale Leon Festinger) afferma che una persona la quale per l’una o l’altra ragione s’impegni ad agire in una maniera contraria alle sue convinzioni, o a quelle che crede essere le sue convinzioni, si trova in uno stato di dissonanza. Si tratta di uno stato sgradevole, e l’interessato tenterà di ridurre la dissonanza. Siccome il “comportamento discrepante” ha già avuto luogo, e non può esser disfatto, mentre le convinzioni possono esser cambiate, la riduzione della dissonanza può ottenersi principalmente modificando le proprie convinzioni nel senso di una maggiore armonia con le azioni».

In questo caso è la situazione politica italiana, europea e mondiale a generare lo stato di dissonanza; l’economia e la società del consumo e della competizione generano frustrazione, povertà e stress, ma dato che il contesto “discrepante” viene preso come un dato di fatto immutabile, risulta più facile mutare le nostre convinzioni. L’intervento di un messaggio politico populista e “disconnesso” dalla realtà dei fatti può a questo punto essere fondamentale nel ridurre la dissonanza cognitiva, fornendoci una visione del mondo semplificata e “migliore”. Se ciò è vero, quanto più il messaggio sarà falsato, eccessivamente propagandato o ampiamente implausibile, tanto più verrà accettato e tanto meglio si diffonderà, perché funzionale a far dimenticare una realtà complessa e sfavorevole. Da questo punto di vista gli italiani hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte ad un mondo sempre più tecnico e difficile da capire (o da semplificare per mezzo di un’ideologia) ed hanno accettato con piacere e sollievo il prezzo di un programma di governo fatto di promesse, ipocrisia e irresponsabilità, ottenendo in cambio una drastica riduzione del disagio provocato dalla vita nel mondo contemporaneo.

Come ho già detto in precedenza, una spiegazione esaustiva delle ragioni del voto sarebbe necessariamente molto più approfondita e specialistica, dovendo declinare gli effetti delle identità e delle appartenenza di gruppo (siano queste di partito, territoriali, sociali, economiche e così via), ma pensare la scelta elettorale come uno strumento collettivo per ridurre la forte dissonanza cognitiva generata dalle difficoltà di un mondo plurale e complesso è un’ipotesi intrigante e, per certi versi, realistica.



Commento di Lucia:

Credo che la spiegazione che tu stesso hai proposto delle ultime elezioni sia calzante anche in questo caso: dissonanza cognitiva, e tentativo di riduzione della stessa. Non è nonostante la de-nazionalizzazione, ma proprio a causa di essa, che, a mio parere, si è creata questa ondata di revival nazionalista, come lo chiami.
L'insicurezza, la paura e la crisi fanno il resto, ma anche queste sono conseguenze di una globalizzazione a briglia sciolta, come ben sappiamo. Credo che faccia paura, anche su un piano psicologico, rendersi singolarmente responsabili dei problemi e affrontare soluzioni di tipo cooperativo, che comunque metterebbero gli individui in primo piano. Affidarsi a una identità superiore fa sempre comodo, e ancora più comodo a qualcosa che si sente vicino e "familiare" come lo Stato Nazionale. E proprio nel processo di costruzione di queste identità che si creano storie e miti, identità mai esistite (vedi Sen).
Inoltre, se vogliamo divertirci con le teorie del complotto (sempre molto in voga anche loro nei momenti di crisi), potrei sostenere che gli Stati, consci della loro perdita di potere, fanno di tutto per aggrapparsi agli ultimi scampoli di gloria, istillando paura e dubbio, affinché i cittadini chiedano aiuto.
D'altra parte lo Stato è un attore collettivo, come tale non è la semplice somma delle parti, ed ha, guarda caso, un'identità propria. Collettiva pure quella, ma singola nella sua unità. O almeno ci prova.

Lucia.

Tuesday, November 4, 2008

4 Novembre, festa dell'Unità Europea

Su Eurobull.it ho provocatoriamente sostenuto che il 4 novembre, festa delle forze armate e dell'unità nazionale in ricordo della "vittoria" italiana nella I Guerra Mondiale, dovrebbe essere dichiarata "festa dell'unità europea" e che le uniche forze armate veramente degne di ringraziamento sarebbero quelle di un auspicabile esercito europeo, capace di trasformare l'Unione in una vera potenza civile (senza contare i risparmi economici sui bilanci nazionali, molto importanti in questi tempi di tagli generalizzati).

E' interessante e allo stesso tempo preoccupante seguire giorno per giorno la cronaca di questo revival nazionalista che sta investendo tutto il vecchio continente.. sopratutto per provare a capire in che modo un sentimento di appartenenza identitaria tipico del '900 possa evolversi nel contesto della de-nazionalizzazione che stiamo vivendo; ancora più affascinante è poi osservare la mistificazione all'opera, la ricostruzione attenta del passato e la reinvenzione dei miti mai esistiti.

D'altronde lo Stato, così come il perseguimento del "destino nazionale", sono semplici costrutti istituzionali e sociali, meccanismi assolutamente non universali ma ben collocati storicamente nel lungo percorso degli eventi umani; casomai l'unico destino sovraindividuale possibile a questo mondo potrebbe essere quello appartenente all'intera umanità, posta difronte alla scelta se autodistruggersi in un olocausto ecologico e nucleare o salvarsi per mezzo di un cambiamento radicale, una rivoluzione pacifica che attraverso delle istituzioni democratiche globali assicuri l'impossibilità dei conflitti armati e faccia prevalere la forza del diritto sul diritto della forza.

La divisione in stati nazionali della comunità umana è cosa obsoleta e pericolosa ma, come citava qualche tempo fa l'Irish Times "we humans are quite good at building new institutions in response to changing circumstances. Unfortunately, we can be a bit slow about dismantling older ones, and often focus more on the institution than on the job it is supposed to do." Sta al nostro coraggio e alla nostra fantasia andare oltre le categorie ed i muri concettuali esistenti, ricordandoci ogni volta quello che dicevano i primi astronauti che guardavano ammirati il nostro pianeta: "dall'alto la Terra non ha confini, nè frontiere".

Monday, November 3, 2008

Il posto dell'Ironia

Che posto ha l'ironia nell'ambito dell'etica? Secondo Richard Rorty, filosofo statunitense scomparso nel 2007, questo valore rappresenterebbe uno dei tre capisaldi di una possibile e auspicabile spiritualità laica, insieme alla solidarietà e alla carità.

Questa riflessione mantiene intatta la propria validità anche passando dalla prospettiva individuale all'ambito della politica? In un mondo in cui prevale il conflitto posizionale (vedi: "Social Limits to Growth" di Fred Hirsh, 1976) ed il vebleniano consumo di ostentazione, in un tempo in cui sia l'equità che la solidarietà (rappresentate politicamente dallo stato di diritto e dal welfare state) vengono progressivamente dismesse a favore dei rapporti mediati dal mercato, l'ironia diventa forse l'arma migliore a disposizione delle persone per non soccombere di fronte alle sfide contemporanee e per rispondere in maniera creativa, critica ed intelligente ad ogni tentativo di omologazione, negazione delle diversità e furto delle libertà di pensiero ed espressione.

p.s.: sopratutto è un grande orgoglio per tutti i toscani, da sempre fieri della propria pungente ironia!

Saturday, November 1, 2008

L'insostenibile leggerezza geopolitica dell'Europa

Ho scritto un nuovo articolo per Eurobull.it, dal titolo "L'insostenibile leggerezza geopolitica dell'Europa", per sottolineare la colpevole mancanza di un vero potere europeo in campo estero e militare, proprio nel momento in cui si osserva una nuova "primavera geopolitica", dal conflitto Russia-Georgia agli equilibri in costruzione fra le superpotenze asiatiche.

Ad aggiornamento dell'articolo possiamo aggiungere che, anche e sopratutto in risposta ai nuovi felici rapporti indo-giapponesi (di sospetta matrice contenitiva anticinese), la Repubblica Popolare Cinese e la nuova Russia di Putin-Medvedev stanno stringendo rapporti di partnership sempre più stretti e basati su una nuova comunanza ideale, in particolare nelle proposte di riforma dell'ordine economico internazionale dopo la crisi finanziaria. Della serie: se voi occidentali non ci ascoltate, pensando di poter risolvere i problemi del mondo attraverso vecchie proposte e categorie, allora iniziamo a muoverci da soli... e se è vero che quando gli USA hanno il raffreddore tutto il mondo si prende l'influenza, è ancora più vero che quando si muove la Cina tutto il pianeta trema.

Un'altra motivazione della vicinanza sino-russa potrebbe essere il duro colpo che la crisi ha inferto alla Russia, smascherando sia le debolezze ancora non sanate che la sua vera natura di PVS ricco di risorse naturali, nascoste fino ad oggi grazie ad una politica "mediatica" da neo-potenza economica, militare e culturale (a questo proposito basterebbe ricordare che, nonostante i nuovissimi investimenti nel settore militare, la Russia possiede ad oggi meno di un decimo delle risorse belliche americane).

Il reale stato di salute della Russia è stato ben illustrato in questi giorni da Robert Skidelsky, professore emerito a Warwick (nonchè autore della biografia di Keynes), che sul FT sostiene che "The idea that Moscow can use its energy to boost its world power without regard to anyone else has been destroyed" a causa della crisi finanziaria, e che "Russia needs to scale down its geopolitical ambition to its real weight – that of an emerging economy with only 3 per cent of the world’s gross domestic product and a quarter of America’s living standard. Also, it desperately needs to develop its human capital. The Putin era is over but Medvedev’s has not begun. This is the real Russian crisis."