Tuesday, March 17, 2009

Sull'antimanuale di economia

L'antimanuale di economia di Bernard Maris (Marco Tropea editore, 2005) si legge come un romanzo; sullo sfondo della sua prosa semplice e discorsiva vengono toccati quasi tutti i punti critici della teoria economica mainstream. Chissà che il linguaggio letterario non sia a sua volta una critica indiretta alla profonda natura retorica delle "scienze" economiche!

La costruzione del libro gioca però a sfavore dell'autore e del suo compito di offrire anche ai novizi della materia una sorta di manuale eterodosso, una guida del paese "Economia": solo chi ha attraversato con spirito critico i pericolosi territori dell'economia neoclassica, destreggiandosi fra modelli, equazioni, autori e scuole di pensiero, potrà apprezzare appieno tutte le citazioni ed i riferimenti inseriti; soltanto coloro che hanno studiato qualcosina di economia ecologica e di antropologia economica riusciranno ad effettuare i giusti collegamenti...

Se a questa componente "strutturale" aggiungiamo alcune banalizzazioni, l'accento troppo marcato sulla storia/realtà francese (e di conseguenza - come lo definirebbe Beck - il "nazionalismo metodologico" che permea il volume) l'opera di Maris perde un po' rispetto alle aspettative che la caratterizzavano.

Detto questo il libro resta molto carino, ben fatto e ovviamente interessante, in particolare i primi capitoli nei quali si fa direttamente riferimento (critico o apologetico) ad autori storici, modelli divenuti "classici" e "pilastri" teorici della scienza economica; interessante la scelta di inserire degli estratti dai testi di riferimento alla fine di ogni capitolo (meno interessanti, invece, alcuni - solo alcuni - degli autori scelti).

L'autore riesce nell'operazione di creare un libro capace di racchiudere buona parte degli sguardi alternativi ed eterodossi sul mainstream economico; per questo motivo l'antimanuale di economia resta un ottimo inizio (o un'ottimo ripasso) per tutti coloro che, credendo davvero nelle potenzialità della teoria economica, rifiutano di chiudere gli occhi e di spegnere il cervello e restano sempre alla ricerca di nuovi e intriganti modi per guardare, leggere e spiegare la realtà.

p.s.: Il libro è, in fondo e in modo nemmeno troppo nascosto, un'ode spassionata a John Maynard Keynes, ma non c'è niente di male in questo!

Friday, March 6, 2009

Amartya Sen e l'identità individuale e collettiva

Pubblico oggi la recensione a "Identità e Violenza" e "l'Altra India", i due libri più recenti di Amartya Sen (premio Nobel per l'economia 1998), fatta dalla mia amica Lucia Ferrone, e pubblicata anche sulla famosa rivista fiorentina il Ponte (quella fondata da Piero Calamandrei il quale, per inciso, è stato il fondatore negli anni della guerra dell'AFE, l'Associazione dei Federalisti Europei poi confluita nell'MFE... ma questa è un'altra storia).


Amartya Sen e identità individuale e collettiva.

Commento a Identità e violenza e L'Altra India.

Il filo che collega i due volumi può sembrare sottile e all'apparenza inesistente: il primo, Identità e Violenza (Laterza, 2006), affronta il problema, in maniera 'focosa' e quasi di getto, della definizione dell'identità individuale. Un problema complesso e antico, di cui Sen tratta il nodo principale: è possibile per un individuo definirsi con un'unica identità? E' possibile che una appartenenza prevalga sulle altre in modo netto? La trattazione è ovviamente divulgativa e non filosofica, centrata sugli avvenimenti e i problemi dell'attualità, tuttavia mette in luce alcune tematiche principali che vedremo di seguito.

L'altro volume di cui si parla, L'altra India (Mondadori, 2005), è una raccolta di sedici saggi in cui il Professore tratta, direttamente o più indirettamente, dell'India, della sua storia e della sua cultura e tradizioni; è una raccolta rivolta quasi più agli indiani stessi che non agli "stranieri", per quanto molto ci sia da imparare da questa lettura.

Il sottotitolo del secondo volume è peculiare: "La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana".

Quello che Sen sembra proporsi, raccogliendo questi saggi e dando loro un corpus organico e logico, è di sfatare il mito dell'identità indiana comunemente sentita, ovvero sfatare il mito dell'India come culla del misticismo religioso, degli indiani "spirituali" tanto cari al pensiero New Age degli anni Settanta; questa visione dell'India è distorta, dice Sen: figlia di un passato coloniale che ha pesato in maniera decisiva sulla costruzione dell'identità indiana. Da buon 'illuminista', Amartya Sen ci tiene a far conoscere al mondo il lato profondamente razionale e scientifico della cultura e della storia indiane.

E' a questo punto evidente il filo conduttore che lega le due trattazioni: da una parte si ha il problema dell'identità individuale, dall'altra un'identità collettiva: l'"indianità"; in entrambi i casi quello che a Sen preme sfatare è l'idea -che oggi sembra predominante- che l'identità possa essere unica e, soprattutto, univoca.

Il pensiero corrente, dice Sen, sembra partire da due presupposti. In primo luogo, la convinzione che l'identità di un individuo sia unica e univocamente determinabile in base al sistema di riferimento scelto: se si parla di divisioni geo-politiche, o di "civiltà", tanto per richiamare il più volte citato Huntington, si è "occidentali" o si è "islamici" oppure "indù", e c'è poca scelta nell'essere l'uno o l'altro; in secondo luogo, ed è un errore di tipo simile, il pensare che un'identità collettiva, raggruppante più persone, possa essere al suo interno assolutamente omogenea, senza divisioni rilevanti di sorta, senza alcuna soluzione di continuità.

Dunque, partendo da questi due presupposti, spiegare il mondo diventa quantomai semplice e rassicurante: se un gruppo di persone risponde a una identità collettiva, che è omogenea e unica, ogni individuo all'interno di quel gruppo è univocamente determinato, con tutto ciò che questa determinazione comporta.

Sen ci mette sull'avviso di ciò a cui porta questa divisione del mondo (e non importa che sia una divisione a due, tre o anche cento parti): una percezione assolutamente distorta, che concentra i problemi dell'esistenza in "cosa" si è, e, conseguentemente, da che parte si sta. Una visione che semplifica i problemi complessi e unici che ogni individuo, come ogni collettività, affronta.

Questo tipo di attribuzione identitaria avviene principalmente per confronto, definendo il "loro" e quindi il "noi". La psicologia sociale ci viene in aiuto per capire alcuni meccanismi correlati a questo processo: nel percorso di definizione di un "noi" interno al gruppo di riferimento e un "voi" che comprende tutto il resto; in questa divisione accade che il proprio gruppo viene percepito come composto da individui unici, differenziati tra loro. Gli "altri" diventano un crogiolo indistinto cui è facile affibbiare questo o quell'abito.

Per fare un esempio molto banale: noi italiani sappiamo benissimo distinguere fra un Piemontese e un Calabrese: ne vediamo tutte le differenze, a cominciare da quelle linguistiche, che pure appartengono a una stessa lingua; al contrario gli "immigrati" sono un corpo unico, in cui difficilmente riusciremmo a distinguere differenze che non siano evidenti.

Questo tipo di visioni dividono semplicisticamente il mondo tracciando muri e confini, e di qualunque tipo siano, da qualunque colore politico provengano, hanno il difetto infinito di ridurre i vari attori, individui o collettività che siano, a masse amorfe di cui si intravedono a malapena i confini (si parla di Terzo Mondo, ma da chi e cosa è formato? Cina e India fanno parte del Terzo Mondo? E l'Africa sub-sahariana?).

Un altro aspetto che Sen affronta, in entrambi i volumi, è un aspetto molto importante, legato alla costruzione delle identità uniche. Questa costruzione passa di solito per la re-invenzione della cultura, delle tradizioni e finanche della storia di un popolo, ed è tesa a costruire quell'idea di unicità e incontaminatezza che concorrono a determinare identità univoche. Non è la prima volta in questo secolo che si stravolgono la storia e la cultura di un popolo per costruire e re-inventarne un'identità nuova, unica e pura. E il ricordo di ciò che è accaduto dovrebbe metterci in guardia da ciò cui possono portare queste visioni semplificate del mondo e della Storia. «L'identità può anche uccidere, uccidere con trasporto» è l'ammonimento di Sen.

Riguardo questo aspetto, Sen esprime più volte, in L'altra India, la sua preoccupazione per come il movimento nazionalista Indù (Hindutva, rappresentato in parlamento dal partito bjp) faccia leva sui sentimenti di orgoglio nazionalista del popolo indiano e di come cerchi di mal interpretare e reinventare la storia indiana a proprio favore. Ma non è solo l'India ad affrontare questo problema: anche la politica nostrana ne sa qualcosa.

Parlando sempre dell'India, e andando più indietro nella storia, Sen rileva e mette in luce il perverso meccanismo con cui gli indiani hanno tentato, una volta raggiunta l'indipendenza, di darsi un'identità che fosse "contro" quella cultura occidentale e inglese che li aveva oppressi in tanti anni di giogo coloniale, e che vedevano evidentemente come espressione di un'identità aliena, che doveva per forza essere "altra" dalla loro. Così, se l'Occidente era -o si vantava di essere- scienza e raziocinio, l'India doveva valorizzare spiritualità e misticismo, in una costruzione identitaria fatta per contrasto e assolutamente paradossale. Un esempio particolarmente divertente, nella sua assurdità, è quello che Sen riporta in entrambi i volumi a proposito della funzione trigonometrica seno (sinus in latino): in India tale termine fu introdotto nel XIX importandolo direttamente dall'occidente, e come tale fu visto come l'ennesima invasione nella cultura locale, specialmente dai fautori dell'istruzione indigena, se non fosse che la parola sinus, per varie traversie storiche e geografiche di una globalizzazione premoderna, deriva proprio dall'indiano.

In modo analogo a quanto accade per le identità collettive, le identità individuali subiscono la spinta di queste visioni che marcano e inventano linee di confine e differenze: gli individui vengono appiattiti, e sono portati ad auto-appiattirsi, su un'unica identità. E' da questo appiattimento generale che nascono gli scontri. Ci si focalizza su un'unica dimensione dell'individuo -quella religiosa, di questi tempi- e la si utilizza come spiegazione per tutto, anche con i buoni intenti di trovare soluzioni e dialogo laddove vi è rottura; non ci rendiamo conto, ci ammonisce Sen, che così facendo si contribuisce in realtà ad esasperare le divisioni, perché si contribuisce attivamente all'idea che quella sia l'unica dimensione importante di una persona, anzi: l'unica dimensione esistente. Di fronte ai focosi scontri religiosi non dovremmo tanto chiederci quale sia la natura più autentica di una fede o dell'altra, perché è sempre un modo unidimensionale di inquadrare il problema; bisognerebbe invece cercare di rafforzare, ad esempio, le istituzioni e il senso di appartenenza civile degli individui.

E' percorrendo la ricca storia e cultura indiana in, e facendone uso sapiente, che Sen tocca l'altro punto fondamentale della sua esposizione, e ci ricorda quello che dovremmo sapere e mai dimenticare: che l'insularità culturale non esiste; che nessuno, in nessuna parte del mondo e in nessun tempo, può dirsi immune da contaminazioni culturali. Sarebbe stato un danno indicibile per tutta l'umanità se i nostri antenati si fossero chiusi in loro stessi. Certo, è sempre esistito chi faceva degli altri un nemico, a scopi politici o economici che fossero, ma è altrettanto vero che la discussione pubblica, il confronto e l'apertura sono i motori fondamentali che muovono l'umanità fin dai suoi primi passi. Illudersi del contrario, illudersi che siano problematiche moderne, è un coprirsi gli occhi che porterà il mondo solo più indietro, e non servirà a risolvere i tanti problemi che affiggono l'umanità. Ed è in tempi come questi, in tempi "globalizzati" in cui ognuno di noi è sempre più dipendente da una rete di miliardi di persone, che questa illusione è ancora più dannosa.

In Identità e violenza l'ammonimento e l'appello di Sen all'uso della ragione sono ancora più forti. Sen affronta l'argomento con la trattazione lucida e razionale che lo contraddistingue: con una solida fiducia nella ragione individuale, da illuminista qual è. Si potrebbero certo muovere alcune obbiezioni alla sua analisi: prima di tutto che una società non è una semplice somma di individui, per cui, se anche gli individui fossero razionali -cosa che non è scontata- non è detto che la società nel suo complesso si comporti in maniera razionale. L'identità di un gruppo non è una semplice somma di identità individuali. Questo aspetto viene lasciato un po' in disparte da Sen: si appella alla razionalità dell'individuo, al fatto che ognuno di noi è formato da identità molteplici, che non siamo unici e univoci e che possiamo in fondo scegliere la nostra identità, ma forse tralascia quello che una trattazione più ampia e più mirata al problema potrebbe analizzare: le influenze che la collettività ha sull'individuo. Sen assume che ognuno si possa razionalmente autodeterminare, e quindi autodeterminarsi come molteplice, ma se così fosse si assisterebbe ai fenomeni di costruzione identitaria collettiva di cui sopra? Il nodo centrale risiede forse nello stesso nodo che sta alla base del pensiero economico di Sen: l'individuo può in effetti darsi più di un'identità? Ha le possibilità di farlo, le capabilities? Se lo sviluppo è libertà, per citare un'altra famosa opera di Sen, si può affermare dunque che uno sviluppo che sia veramente tale, debba dare agli individui la libertà di essere unici e molteplici, di darsi più identità; per quanto il problema delle visioni "a blocchi" del mondo sia assolutamente trasversali, è certo che se un individuo non ha la possibilità di pensarsi in altra maniera sarà più fragile e più soggetto a costruzioni mono-identitarie.

Al di là di queste osservazioni, il richiamo di Amartya Sen alla razionalità comune a tutti gli uomini, il suo spostare il focus dell'osservazione sulla molteplicità di ogni persona invece che sulla sua univocità, è quanto mai necessario nel mondo sempre più interconnesso in cui viviamo. E' da qui che dobbiamo partire: dalla consapevolezza di essere unici eppure molteplici, dalla pratica del dialogo e del dibattito, dell'analisi critica, se vogliamo diventare, come ormai si sente ripetere da ogni parte -pure un po' vanamente- cittadini del mondo; attori e non spettatori di quella globalizzazione costantemente citata, criticata o osannata, ma indubbiamente presente.

Homo sum: nihil humani a me alienum puto. (Terenzio, Heautontimoroumenos)

Lucia Ferrone

Thursday, March 5, 2009

Unirsi o perire! Un governo federale per l'Europa

Dopo moltissimo tempo torno finalmente ad intervenire sul blog, girando la mozione che il Comitato Federale della Gioventù Federalista Europea ha approvato nella sua ultima riunione a Verona. Più che di un documento politico, si tratta di una riflessione a breve-medio e lungo termine sulla strategia dei federalisti europei, sulla crisi strisciante della civiltà (e della civilizzazione) occidentale e globale e sull'inedito contesto storico che abbiamo l'opportunità (unica) di raccontare giorno dopo giorno.


Unirsi o perire! Un governo federale per l'Europa

Non perdiamo l'occasione delle Elezioni europee del 2009

Il Mondo e l'Europa versano in una gravissima crisi economico-finanziaria che si è aggiunta a quelle, non meno gravi, energetica ed ambientale. Oltre lo spettro di una nuova, grandissima, depressione, si aprono però spazi per una nuova stagione politica cosmopolita e per l'adozione di soluzione sovranazionali innovative e coraggiose.

Gli stati europei hanno dimenticato la lezione delle guerre mondiali e lo spirito ideale che animava i primi passi del processo di unificazione; con lo sguardo rivolto al breve periodo e ai piccoli interessi nazionali si stanno pericolosamente muovendo in ordine sparso, ciascuno cercando di risolvere, temporaneamente e populisticamente, problemi di ordine globale e strutturale. In particolare, è il declino dell'ordine monopolare gestito dagli Stati Uniti a rendere inedita la situazione ed urgenti le soluzioni; ma la costruzione di un nuovo ordine multipolare non è un passaggio semplice e presenta molti rischi, primo fra tutti, di cui notiamo con estrema preoccupazione i segnali, il ritorno ad un miope protezionismo persino nell'ambito degli stati europei. Questi ultimi sarebbero i primi a pagarne conseguenze negative in un contesto di grandi potenze globali mentre, dotandosi della capacità di una risposta europea, avrebbero invece la possibilità di partecipare efficacemente alla gestione multipolare del processo di globalizzazione e di indirizzarla verso un modello democratico e regolamentato.

L'Unione Europea, che rappresenta il più avanzato esperimento di superamento della sovranità statale esclusiva al mondo, può e deve porsi come modello per l'unificazione delle grandi regioni del mondo, in vista dell'unità politica dell'intero genere umano. Questo esempio potrà essere fatto valere soltanto ad una condizione: l'UE deve completare la propria unificazione federale, dotandosi del potere adeguato per agire sullo scenario internazionale e per influenzare positivamente le dinamiche – economiche, politiche e culturali – più pericolose per lo sviluppo e la convivenza pacifica dell'umanità. È necessaria un'Unione più democratica ed un governo federale che sia in grado di dialogare con le altre aree del mondo, dimostrando i benefici ottenuti grazie non al diritto della forza, ma alla forza del diritto e di un modello sociale che coniuga la libertà ed il mercato con la solidarietà tra stati e tra cittadini.

Le prossime elezioni europee sono un appuntamento fondamentale, che l'Europa può sfruttare per tornare ad essere soggetto e non oggetto della storia, ma soprattutto per ridare un ruolo al voto dei propri cittadini; in caso contrario diventeranno l'ennesimo sprezzante schiaffo alla democrazia e a tutti gli europei, l'ennesima occasione sprecata. Per questo motivo la Gioventù Federalista Europea chiede:

- ai partiti europei di indicare il loro candidato alla guida della Commissione europea e inserire nel loro programma elettorale un chiaro impegno per rilanciare il processo costituente e istituire un governo federale tra i paesi dell'Unione europea che lo vorranno;

- ai candidati che si impegnino ad esercitare tutti i poteri di cui dispone già oggi il Parlamento europeo, in particolare quelli relativi all'approvazione del bilancio, alla nomina del Presidente della Commissione e al voto di sfiducia della Commissione, se gli impegni assunti di fronte agli elettori non verranno rispettati;

- ai governi nazionali l'impegno a riaprire – anche da parte di un'avanguardia di Stati – il processo di revisione istituzionale attraverso una convenzione costituente che abbia il mandato di redigere una Costituzione federale;

- a tutte le forze della società di recuperare la consapevolezza riguardo le finalità ideali del processo di unificazione europea, l'unica via possibile per realizzare un mondo più giusto e pacifico.

Senza una vera Federazione Europea i cittadini europei sono condannati all'impotenza. L'inadeguatezza degli stati nazionali aprirà la strada al populismo, alle politiche protezioniste e agli orrori che pensavamo cancellati dalla scena della storia. Esiste il rischio non trascurabile che la crisi economica e finanziaria in corso rappresenti il primo passo verso una crisi della democrazia in Europa ed il preludio della crisi strutturale – e morale – della civiltà contemporanea

Coloro che hanno a cuore il futuro dell'umanità non possono rassegnarsi di fronte alle scelte miopi della classe politica europea; le elezioni europee del prossimo giugno devono rappresentare il primo simbolo della reazione politica alla crisi globale, e la scelta definitiva tra i due destini possibili per l'Europa ed il Mondo: Unirsi o Perire!

Tuesday, January 20, 2009

Finalmente si parla di (con)Federazione tra Israele e Palestina

Da ResetDoc.org, finalmente un bell'articolo (nonostante la confusione terminologica fatta dalla Benhabib tra confederazione e federazione, il modello di governo al quale l'autrice si riferisce in realtà) che propone una via d'uscita cosmopolitica e post-nazionale al terribile conflitto - più che asimmetrico - tra Israele e Palestina. Come l'odio secolare tra gli Europei si è tramutato in un processo unico di positiva integrazione, lo stesso può accadere in Medio Oriente; basterebbe un po' di immaginazione, coraggio e prospettiva veramente politica.


Qual è il gioco finale di Israele?
Seyla Benhabib


Seyla Benhabib è professore di Scienze Politiche e Filosofia all'Università di Yale ed é Direttrice del programma di Etica, Politica ed Economia.

L'attacco militare israeliano alla Striscia di Gaza, dove vivono un milione e mezzo di palestinesi, è stato lanciato il 28 dicembre 2008, ultimo giorno di Hannukkah, la "Festa delle Luci". Hannukkah ricorda la rivolta degli antichi ebrei, guidati da Giuda Maccabeo, nel II secolo a.C., contro Antiochio IV Epifanio. La leggenda vuole che, durante la riconsacrazione del Sacro Tempio, dopo che la rivolta dei Maccabei l'aveva liberato da Antiochio, benché vi fosse olio sufficiente ad illuminare la menorrah soltanto per una notte, il candelabro rimase acceso per otto notti. Lanciando l'attacco su Gaza, i vertici dell'esercito israeliano erano consapevoli del potere evocativo che la scelta di tempo avrebbe avuto sull'opinione pubblica israeliana: ancora una volta, è la storia della resistenza contro un nemico del popolo ebraico. La minaccia alla sopravvivenza collettiva eroicamente sconfitta dal Ministro della Difesa Ehud Barak, il nuovo Giuda Maccabeo! La potenza di questi ricordi della sopravvivenza e della resistenza ebraica, unita alla determinazione, seguita all'Olocausto, perché "Mai più il popolo ebraico venga distrutto", costituiscono la sorgente emotiva di quel sentimento collettivo a cui i leader israeliani ricorrono quando sono sotto attacco.

Le considerazioni strategiche e quelle di Realpolitik dell'attuale azione militare a Gaza, tuttavia, sono abbastanza chiare: uno Stato, si dice, non può accettare che i propri cittadini siano sottoposti a continui e imprevedibili attacchi missilistici ed ha l' obbligo di difendere i propri confini e la popolazione. Scavando un po' più in profondità, tuttavia, si può notare che l'operazione di Gaza tenta di riaffermare la pretesa invulnerabilità militare di Israele, perduta in seguito alla guerra con il Libano del 2006. Nei prossimi mesi, inoltre, in Israele e nei territori palestinesi, si terranno le elezioni generali e sia l'attuale Ministro degli Esteri Tzipi Livni, del partito Kadima, che il Ministro della Difesa, Ehud Barak, del partito laburista, sono candidati alla carica di Primo ministro. Nulla di tutto ciò, tuttavia, spiega la ferocia e la sproporzionata brutalità dell'azione israeliana, la violazione del diritto umanitario internazionale e il possibile coinvolgimento in crimini di guerra. Perché?
Israele ha perso la propria visione politica e, oggi, le sue azioni sono dominate dalla forza militare, senza un chiaro disegno politico. E la forza militare, quando non è subordinata ad un obiettivo politico, è cieca e brutale.

Nessun leader israeliano possiede una visione politica, e con ciò non intendo una strategia di obiettivi a lungo termine, compressa tra due cicli elettorali e modificabile a seconda delle circostanze, ma una visione politica come quella che i fondatori di una repubblica si suppone debbano avere. In che modo resisterà questa nazione? Quali durature istituzioni potrà tramandare ai suoi figli e ai suoi nipoti nelle quali essi potranno essere liberi di prosperare come individui e come cittadini? Chi, oggi, ha una visione politica da proporre in previsione di un conflitto israelo-palestinese? Gli israeliani l'hanno certamente perduta. E i palestinesi, sebbene abbiano avuto a loro favore la forza della moralità e il vento della storia, sono stati ripetutamente sconfitti e traditi dalle gloriose nazioni arabe, sempre generose di retorica ma avare di azioni.

A partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, la visione politica palestinese si è ispirata al tier-mondisme (il terzomondismo) dei "miseri della terra", un progetto di modernizzazione nazionalista e statalista che ha mostrato i suoi evidenti limiti in occasione del sostegno offerto dalla leadership palestinese all'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Ricordo ancora il commovente articolo del compianto Edward Said, apparso sul New York Times nell'autunno 1992, nel quale egli riconosceva questa follia palestinese e descriveva con chiarezza la fine dell'ideologia di Fatah. Nel vuoto lasciato in tutto il mondo arabo dal crollo delle ideologie militari burocratiche occidentalizzanti e modernizzanti, hanno fatto irruzione le ideologie islamiche rappresentate da Hamas e da Hezbollah: il nuovo islamismo consiste in una visione autoritaria, purista e moralista ispirata dalla rivolta dell'Ayatollah Khomeini contro l'Occidente, una visione che ha conquistato influenza tra la popolazione palestinese, sia grazie alla violenta retorica sulla distruzione dello Stato ebraico che ai suoi programmi solidaristici e redistribuzionisti di aiuto comunitario e di carità islamica.

Hamas, come gli esordi del movimento islamico in Turchia e altrove in Medio Oriente, rappresenta una visione ugualitaria e redistribuzionista della solidarietà islamica che è anche profondamente autoritaria e illiberale. Negli anni Ottanta, Hamas era sostenuta da Israele in quanto alternativa alla più laica e combattiva Fatah, analogamente a come, in Afghanistan, gli USA avevano appoggiato Osama bin Laden e i Mujaheddin contro i più laici Fedayyin, di inclinazione socialista. In entrambi i casi, il genio è fuggito dalla bottiglia ed ora Israele, come gli Stati Uniti, è alle prese con il cambiamento delle alleanze da parte di Hamas e del più temibile Hezbollah, trasformatasi da un servizio sociale islamico ad una forma di militarismo islamista, passata da un sostenitore sunnita, come l'Arabia Saudita, agli ideologi sciiti iraniani. Non c'è nulla in questa costellazione che potrebbe far sentire a proprio agio e dare speranza ai progressisti. Il nostro impegno verso l'uguaglianza, l'autodeterminazione e la solidarietà dei popoli deve, dunque, rimanere un principio fondamentale e non può essere sacrificato alla cieca partigianeria in favore di un gruppo o di un altro.

La sicurezza di Israele in un mondo post-westfaliano

Qual'é allora il gioco politico finale di Israele? Israele sta lottando per una sicurezza westfaliana in un mondo post-westfaliano, in cui i confini sono diventati porosi e dove i germi, le notizie, le merci, il denaro e le persone viaggiano di più, più velocemente e in misura sempre maggiore. Tra l'Egitto e Gaza sono stati scavati dei tunnel che permettono di far entrare di contrabbando armi acquistate con denaro iraniano. In Medio Oriente circolano petroldollari provenienti da sceicchi corrotti e da regni del Golfo che cercano di tutelare le loro fragili dinastie e da un regime iraniano irredentista e irresponsabile retto da predicatori erranti e da uomini falsamente santi. Apparati difensivi ormai dismessi, provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche Sovietiche come il Kazakistan, il Kirgizystan e l'Arzebaijan, giungono nelle mani dei loro fratelli musulmani; senza dimenticare, naturalmente, i cinici mercanti di armi cinesi o i magnati russi, ben felici di piazzare la loro merce in quest'area.

E Israele finge di essere scandalizzata! Scandalizzata dal fatto che missili con una gittata che permette loro di raggiungere Israele, siano ora ammassati nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale. Scandalizzata che piccoli gruppi di militanti di Hamas lancino razzi montati su vettori mobili e poi nascosti tra la sfortunata popolazione civile. Ma tutto ciò è ipocrita e non spiega la violenta ritorsione messa in atto da Israele. Anche Saddam Hussein, durante la Guerra del Golfo, lanciò su Tel Aviv qualche debole missile Scud e adulti e bambini indossarono le maschere a gas e rimasero nei loro appartamenti ad aspettare che i missili cadessero. Israele sa, e lo sa da tempo, che il suo ipotetico scudo militare è stato violato da armi di sempre più nuova generazione. In questo nuovo mondo, a partire dall'11 settembre 2001, non esiste più una sicurezza assoluta e una totale invulnerabilità, ammesso che sia mai esistita . E' la consapevolezza di questa vulnerabilità a rendere Israele sempre più bellicosa nei confronti dei suoi vicini. Neanche il fatto di essere in possesso della bomba atomica rassicura Israele, non perché anche l'Iran potrebbe acquisirla, ma perché l'uso delle armi nucleari contro obiettivi che si trovano in Libano, in Siria, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Giordania, renderebbero invivibile la stessa Israele poiché le nubi radioattive si diffonderebbero in tutta la regione, contaminando l'acqua e la vegetazione.

Quattro visioni politiche

In Israele, molti dibattiti politici cercano di affrontare questa situazione, senza offrire tuttavia un nuovo progetto:
1- La prospettiva della guerra perpetua. Per quanto politicamente indifendibile, da parte di qualunque politico che si rispetti, questo è un atteggiamento psicologico che si sta diffondendo tra gli israeliani. Sono in molti a credere che la guerra diventerà un modo di vivere e che in Israele e in Palestina non ci sarà mai pace.
2- Liberali e progressisti di ogni genere, per contro, sostengono la soluzione dei due Stati, perché credono nel principio dell'uguale determinazione dei popoli. Altri ancora, l'accettano perché si preoccupano di ciò che chiamano "la ticchettante bomba demografica", rappresentata dall'elevato tasso di natalità palestinese, e perché non vogliono trovarsi ad essere una minoranza in uno Stato a maggioranza palestinese, sia esso o no democratico.
3- C'è poi la visione della Grande Israele fondata sulla fede religiosa, vale a dire, l'idea che le antiche terre della Giudea e dalla Samaria appartengono irrevocabilmente al popolo ebraico.
4- Quest'ultima visione va distinta dall'idea laica di una Grande Israele, che include i territori palestinesi, che deve essere governata attraverso accordi economici accettabili per entrambi, associando libero commercio e zone di sviluppo economico.

A partire dall'iniziativa di pace di Yitzhak Rabin e dagli accordi di Camp David, quella della "soluzione dei due Stati" è la linea politica ufficiale adottata sia dalle amministrazioni israeliane che da quelle americane. Tale soluzione, tuttavia, cela un nucleo ambivalente e, spesso, il significato recondito di tale formula affiora alla coscienza dell'opinione pubblica. La soluzione dei due Stati è stata largamente accettata non soltanto perché essa garantisce il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese ma anche perché essa prometteva il "disimpegno demografico". Improvvisamente, i demografi hanno sostenuto che se Israele avesse continuato ad occupare Gaza, la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme, avrebbe finito con l'esercitare il controllo militare su 5 milioni di arabi palestinesi, compresi quei cittadini israeliani che vivono all'interno dei confini di Israele del 1967.

Considerato l'elevato tasso di natalità palestinese, si è pensato che fosse a rischio la stessa natura ebraica di Israele, a meno di un disimpegno da Gaza e di una restituzione parziale dei territori. L'incubo di diventare minoranza all'interno di uno Stato che fu fondato proprio per proteggersi dal pericolo di essere trattati come cittadini di seconda classe, disprezzati, sfruttati, diffamati e sterminati, si è ripresentato. Improvvisamente, tutti i fantasmi dell'inconscio ebraico, dai pogrom cosacchi ai campi di sterminio nazisti, si sono risvegliati e la maggioranza della popolazione israeliana, per sfuggire a un tale incubo, ha sottoscritto gli accordi di Camp David e ha detto: "due Stati, uno accanto all'altro". Tuttavia, questa idea non è stata mai accettata da molti strateghi della Realpolitik israeliana né dai coloni. A partire dal 1967, il movimento dei coloni, che un tempo non era costituito che da un gruppo di fanatici sognatori che credeva nella "terra di Israele" (Eretz Israel), contrapposto allo "Stato di Israele" (Medinat Israel), si è trasformato in una massa eterogenea di militanti e di gruppi religiosi ben armati e ben finanziati.

Sono loro che, in una moschea di Hebron, hanno sparato contro i palestinesi durante le preghiere del venerdì ed è dalle loro fila che è venuto Yigal Amir, l'assassino di Yitzhak Rabin. Come gli assassini di Anwar Sadat, in Egitto, che appartenevano ai Fratelli Musulmani, questi sono gruppi che vivono in un'altra epoca, ascoltano le voci degli antichi dei, avvertono i fremiti di antiche guerre e obbediscono ad antichi miti. Essi restano una forza irredentista e pericolosa, sia per gli israeliani che per i palestinesi, e tenteranno di sabotare qualunque pace durevole nella regione perché la loro raison d'etre è la visione messianica di una lotta antica ed infinita. Il loro violento potenziale è manipolato anche da politici di entrambe le parti allo scopo di promuovere i propri miopi obiettivi.

Ma come la situazione dei palestinesi è stata sfruttata da regimi arabi corrotti per puntellare la propria incerta legittimità,così il movimento dei coloni è stato usato da ciniche élite israeliane allo scopo di promuovere la loro indeterminata visione di una Grande Israele laica. Vi sono ebrei inflessibili, attaccati alla terra, descritti in modo indimenticabile da Amos Oz nel suo libro In terra d'Israele, i quali sono stranamente progressisti quando si tratta di questioni di cooperazione economica e di sviluppo con i palestinesi. Questi uomini, che ricordano gli agricoltori bianchi della Rhodesia, gli intraprendenti allevatori di bestiame australiani o quelli del Sud Africa, vogliono controllare e valorizzare la terra di Israele/Palestina. Al contrario dei liberal, che si preoccupano "dell'anima dell'Israele democratica", loro sono più interessati ai "muscoli" della capacità economica e agricola di Israele. L'eroe della guerra del 1967, Moshe Dayan, apparteneva a questo gruppo, come vi appartiene Ariel Sharon . Per loro, purché i palestinesi siano tranquilli e fiorenti imprenditori capitalisti, purché valorizzino la terra, anziché distruggerla, la coesistenza è possibile. In anni recenti, i sogni di questo gruppo sono andati infranti quando una folla di palestinesi in preda all'ira ha distrutto tutte le belle serre costruite a Gaza dagli israeliani per esportare in tutto il mondo rose, pomodori e avocado.

La collera palestinese, che si è manifestata con la distruzione della proprietà, è stata interpretata da questo gruppo, e da molti padroni coloniali prima di loro, come l'incapacità dei nativi a lavorare duramente, a difendere la proprietà e ad aggiungere valore al capitale. L'attuale operazione militare a Gaza contiene elementi di tutte e quattro le visioni ed è per questa ragione che essa è incoerente con i suoi intenti: Israele vuole occupare di nuovo Gaza e costruire serre che saranno distrutte ancora una volta? Intende distruggere, una volta per tutte, Hamas e le sue istituzioni militari e civili e poi uscire da Gaza in previsione di una soluzione dei due Stati che, a quel punto, sarà difficilmente praticabile? Oppure Israele vuole rioccupare Gaza e mettere al sicuro le sue truppe e commettere potenziali crimini di guerra contro la popolazione palestinese? Nessuno lo sa con certezza.

Come il Tibet e la Cina?

Nella situazione attuale, esistono dunque alternative autenticamente politiche e non semplici strategie militari spacciate per visioni politiche? In Israele c'è un movimento per scindere la cittadinanza israeliana e l'identità etnico-religiosa ebraica in modo che Israele possa diventare la terra di tutti i suoi cittadini. Ciò comporterebbe l'abbandono totale o parziale della Legge del Ritorno che garantisce ad ogni ebreo, riconosciuto come tale da un'autorità rabbinica, il diritto alla cittadinanza israeliana. Fino a pochissimo tempo fa, la legge israeliana sulla cittadinanza non era stata riformata e molti lavoratori immigrati, i loro figli, così come i coniugi non ebrei, non potevano ottenere la cittadinanza.

Paradossalmente, negli ultimi dieci anni, è diventato più facile diventare cittadino israeliano ad un russo che si dichiara ebreo che a un arabo palestinese nato e cresciuto nella parte orientale di Gerusalemme, perché quest'ultimo sarà considerato un rischio per la sicurezza e perché lo status di quella zona è ancora incerto in termini di accordi internazionali. Per quanto importante, questa visione corre il rischio di trasformarsi in una sorta di benevolo imperialismo, in particolare laddove chiede che la cittadinanza sia estesa fino ad includere i palestinesi che vivono in quei territori occupati il cui status, in considerazione dell'assenza di un esauriente trattato di pace, è indefinito.

Qualsiasi ponderata riflessione politica su Israele e sulla Palestina deve fondarsi sulla premessa che la forza militare è un deterrente sempre più opinabile e che non sono le armi, ma gli uomini, a concludere la pace. La pace è un bene collettivo. Israele è intrappolata in un modello di sovranità westfaliano che ipotizza che lo Stato abbia il controllo su tutto ciò che si trova all'interno e lungo i suoi confini. Le democrazie più avanzate sanno che le cose non stanno più così, né dal punto di vista normativo né da quello empirico. La sovranità è un insieme di privilegi e prerogative statali che possono essere condivisi, delegati ed esercitati congiuntamente ad altri gruppi e ad altri poteri. Molti, tra i leader israeliani, sanno che non permetteranno mai alla Palestina una piena sovranità sullo spazio aereo, sia a Gaza che in Cisgiordania, né sul libero transito di beni dentro e fuori i porti di Gaza, che costituirebbero l'unico accesso al mare di un futuro Stato palestinese, e che Israele non rinuncerà al controllo delle riserve idriche sotterranee che si estendono in entrambe le parti dei territori del 1967.

Dunque, perché fingere che uno Stato palestinese sarà sovrano nel senso in cui Israele intende la propria sovranità? La triste e semplice verità è che quello Stato palestinese sarà eternamente intimorito, controllato, sorvegliato e, occasionalmente, colpito da Israele. E' proprio perché molti di coloro che sostengono la soluzione dei due Stati sanno anche che le loro relazioni future con lo Stato palestinese assomiglieranno più a quelli che intercorrono tra Tibet e Cina o tra India e Kashmir che non a quelli tra Austria e Italia che molti politici israeliani sostengono a parole questo ideale, mentre in concreto fanno di tutto perché quella soluzione sia sempre meno probabile.

Supponiamo una confederazione

Supponiamo che in Israele-Palestina vi sia una confederazione. Immaginiamo che la neutralizzazione di gruppi come Hamas ed Hezbollah, che non riconoscono l'esistenza dello Stato di Israele, sia l'obiettivo comune di palestinesi e di altre nazioni arabe ma anche che, nel caso in cui Hamas riconoscesse il diritto di Israele ad esistere, avrebbe un posto al tavolo delle trattative; supponiamo che vi sia un controllo esercitato congiuntamente da un'autorità israelo-palestinese sullo spazio aereo, su quello marittimo e sulle acque; immaginiamo che ci sia una valuta comune e una disciplina comune dei diritti relativi agli insediamenti di ogni gruppo etnico in alcune parti del territorio comune. Israele non dovrebbe affrontare una guerra civile contro i coloni fanatici a Hebron e in Cisgiordania i quali, a quel punto, dovrebbero vivere sotto il governo di un'autorità palestinese regionale oppure tornare in Israele. Israele, tuttavia, non dovrebbe difendere le loro terre rubate grazie alle incursioni nel territorio palestinese.

I palestinesi non dovrebbero fingere che il bantustan di Gaza possa in nessun senso far parte di uno Stato palestinese. Gaza sarebbe invece una regione autonoma all'interno di una confederazione congiunta tra Israele e Palestina. A Gaza e in Cisgiordania si terrebbero le elezioni per l'amministrazione municipale e il governo regionale, in conformità con un accordo che definisca con chiarezza la condivisione del potere tra le due regioni e con Israele. Una confederazione non significherebbe la scomparsa dell'organizzazione nazionale collettiva e dell'identità di ciascun popolo: all'interno di una qualche versione dei territori precedente al 1967, vale a dire la Linea Verde, Israele rimarrebbe uno Stato ebraico, con la sua lingua, le sue festività e le sue elezioni, ma condividerebbe il potere con lo Stato palestinese in materia militare, di sicurezza, di intelligence, in campo valutario e commerciale.

Allo stesso modo, i palestinesi manterrebbero la loro lingua, le loro festività e le loro elezioni, ma i due popoli elaborerebbero alcuni programmi scolastici comuni, specialmente nell'insegnamento della storia, che facciano giustizia delle verità storiche e delle sofferenze di entrambi i popoli. I figli di una nuova generazione imparerebbero a coltivare una reciproca solidarietà, anziché un reciproco odio. In tale confederazione vi sarebbe una qualche perequazione dei diritti socio-economici e del diritto allo stato sociale, in modo che non tutti desiderino trasferirsi nelle più ricche province israeliane. Il pluralismo religioso e i diritti civili sarebbero rispettati in egual misura per ebrei, musulmani, cristiani e per coloro che seguono altre fedi. Per gli osservanti religiosi che vogliono che le loro questioni personali siano amministrate dalle autorità religiose vi sarebbero tribunali religiosi facoltativi ma, per garantire pari diritti civili e politici, vi sarebbe anche una Carta dei Diritti.

Se posso spingere il mio sogno ancora oltre, direi che questa confederazione potrebbe diventare il nucleo di una Unione Medio Orientale dei Popoli, in cui la Turchia, l'Egitto, l'Arabia Saudita, la Giordania e molti altri Stati potrebbero associarsi sul modello dell'Unione europea. A coloro che mi accusano di volermi sbarazzare dello Stato di Israele, così come avevano contestato Tony Judt, quando alcuni anni fa osò avanzare alcune di queste proposte sul New York Review of Books, vorrei chiedere: quali alternative avete da proporre al popolo israeliano e a quello palestinese oltre alla guerra perpetua o al progetto imperiale di una Grande Israele laica o religiosa? Se volete che Israele conservi la sua anima di Stato liberal-democratico e preservi la propria identità ebraica senza razzismo, discriminazione e guerra contro un altro popolo, abbiate il coraggio di guardare oltre la visione ormai obsoleta dello Stato westfaliano. Francia, Italia, Germania non sono scomparse all'interno dell'Unione europea, casomai é il contrario: le loro attitudini di governance e la loro capacità di assicurare pace e benessere ai propri popoli sono state potenziate. Una confederazione repubblicana composta dal governo israeliano e da quello palestinese risponde sia alla realtà della accresciuta interdipendenza che si sta creando tra Israele e la Palestina che alla necessità di offrire benessere e stabilità per il futuro. La tragedia di Gaza dovrebbe portare con sé una nuova visione della politica.

(Traduzione di Antonella Cesarini)

13 Jan 2009

Saturday, December 20, 2008

Gli Animal Spirits della Network Society


Nei vari post ho sottolineato più volte il fatto che ogni evento, per quanto critico, debba essere osservato sotto la doppia lente della minaccia e dell'opportunità. In un mondo dinamico e complesso, plurale e "politeista", ogni catastrofe (per usare l'accezione di R. Thom) può aprire nuove strade, nuove possibilità prima inesplorate; allo stesso modo ogni novità positiva può nascondere insidie ed evolversi secondo percorsi perversi e distorti.

Per questo motivo mi è sembrata significativa ed interessante l'idea alla base di Animal Spirits, l'ultimo libro di Matteo Pasquinelli (media-attivista, animatore della ml rekombinant, ricercatore ad Amsterdam e a Londra); la rete -- e più in generale la filosofia dei "creative commons" -- non è soltanto lo spazio di nuove forme di democrazia, informazione e ricombinazione creativa, sperimentazioni di condivisione e produzione libera. Dietro la retorica della "free culture" si nascondono insidie e "mostri", che si appropriano e trasformano in continuazione le nuove idee e le inedite logiche che emergono dalla real-time society globale fondata su internet (qui non trattiamo di altri problemi connessi con internet, come il digital divide).

Dalla decrizione del libro: After a decade of digital fetishism, the spectres of the financial and energy crisis have also affected new media culture and brought into question the autonomy of networks. Yet activism and the art world still celebrate Creative Commons and the 'creative cities' as the new ideals for the Internet generation. Unmasking the animal spirits of the commons, Matteo Pasquinelli identifies the key social conflicts and business models at work behind the rhetoric of Free Culture. The corporate parasite infiltrating file-sharing networks, the hydra of gentrification in 'creative cities' such as Berlin and the bicephalous nature of the Internet with its pornographic underworld are three untold dimensions of contemporary 'politics of the common'. Against the latent puritanism of authors like Baudrillard and Zizek, constantly quoted by both artists and activists, Animal Spirits draws a conceptual 'book of beasts'. In a world system shaped by a turbulent stock market, Pasquinelli unleashes a politically incorrect grammar for the coming generation of the new commons.

Le opportunità create dalla network-society nascondono minacce, in una tensione irriducibile tra la forza formalizzante di coloro che tentano di inquadrare le novità dentro gli schemi esistenti di potere (si veda il controllo delle multinazionali su internet, lo spam, la capacità potenziale di Google di determinare la realtà -- "se non sei su Google non esisti" --, oltre alle dinamiche di controllo sulle identità e sui corpi esercitabili grazie all'ingente massa di informazioni private in circolazione), e la spinta creativa di coloro che hanno trovato nella rete e nelle sue nuove "regole del gioco" lo spazio per sperimentare nuove forme di socialità, partecipazione, formazione, vita.

Friday, December 19, 2008

Cecco d'Ascoli

Non può morir chi al saver s’è dato,
Né vive in povertate né in difetto,
Né da fortuna può essere dannato;
Ma questa vita e l’altro mondo perde
Chi del savere ha sempre dispetto
Perdendo il bene dello tempo verde.
Chi perde il tempo e virtù non acquista,
Com’più ci pensa, l’alma più sattrista.

I dilemmi della crisi

Ouverture: sui dilemmi e sulla crisi

La crisi genera dilemmi, perché l’incertezza e il disorientamento rendono plausibili nuove strade da seguire, mai percorse o finora semplicemente evitate. L’attuale sconvolgimento che va sotto il nome di crisi, prima finanziaria, poi economica, infine -- plausibilmente -- valutaria (è sufficiente vedere ciò che accade giorno dopo giorno alla sterlina inglese, in piena spirale svalutativa), è stata correttamente definita una “once-in-a-lifetime crisis”, a sottolineare la componente di cambiamento strutturale che l’accompagna. Non c’è contingenza in questa crisi, ma soltanto trasformazione radicale, transizione da un disordinato ordine mondiale ad un nuovo, forse più -- forse meno -- caotico ordine globale.

La crisi genera dilemmi e paradossi, quando gli effetti collaterali vengono additati come le cause prime del “terremoto”, dai global imbalances estremi alla de-regolazione (e mal-regolazione) scellerata, mentre le cause prime vengono messe da parte come effetti collaterali, sciocchezze delle quali non curarsi, dalla transizione verso una nuova “egemonia” asiatica, all’impossibilità di perpetuare un modello di società basata sulla chiusura culturale, sull’insostenibilità ambientale, sul consumo sfrenato e sugli idrocarburi, sulla concezione positivista di un progresso e di una crescita emancipatrice e senza limiti.

La crisi genera dilemmi e regresso intellettuale, quando la risposta al tracollo di un sistema fondato sul tentativo di estendere il “mercato” ad ogni fase, ad ogni momento e ad ogni aspetto della vita umana -- compresi i sentimenti, il patrimonio genetico, l’immaginazione -- è basata essa stessa sulle logiche del mercato. La stessa pochezza politica e morale si ritrova dal lato opposto del pendolo che oscilla fra mercato e stato, nel campo della “pianificazione”: crisi diventa la parola chiave per il “potere senza potere” nazionale e si tramuta nel grimaldello per scardinare ogni diritto, per eliminare ogni “sapere assoggettato”, per annullare ogni dominio delle regole condivise, per riportare in auge il dominio del sospetto, del populismo, della violenza “giusta”, per imporre l’unica verità possibile.


Chiusura: un valzer dell’inconsistenza

La crisi che stiamo vivendo è una danza su di una splendida barca che affonda, è una crisi dei corpi e delle menti, è un rilassato oblio di inconsapevolezza che si muove sulle note di un valzer dell’inconsistenza, un oblio quasi completamente ignaro delle voci delle poche cassandre attente, rivoluzionarie e cosmopolite. In ballo non c’è il capitalismo, che sulle proprie contraddizioni, catastrofi e rivoluzioni fonda la propria forza e persistenza, ma soltanto il capitalismo come lo conosciamo oggi; in ballo non ci sono solamente le conquiste sociali di secoli di lotte. Nel grande gioco della crisi è in ballo la capacità della politica di suggerire una direzione, anche se plurale e politeista, alla comunità umana, nonché la possibilità della politica stessa di tornare ad essere lo strumento principale che gli uomini si sono dati per governare il conflitto e condividere il potere.

Dopo la crisi, il governo sarà ancora la più grande riflessione sulla natura umana, come diceva Madison, uno dei padri del federalismo americano? Saremo in grado di non soccombere di fronte a noi stessi e alle nostre creazioni, uniche vere minacce alla Pace Perpetua? Riusciremo a scardinare i duri sedimenti istituzionali, culturali ed economici che oggi ci offuscano la vista e rendono il mondo una grande “fiera delle non-vanità”? Saremo in grado di sfruttare appieno la logica aperta della nostra creatività, i campi inesplorati del nostro sapere e della nostra fantasia, per trovare nuove strade, nuove forme e nuovi spazi di ampio respiro per l’agire politico?

Tra il rischio di un olocausto nucleare e quello di un suicidio ecologico, l’umanità può ancora dimostrare che la sua intelligenza superiore non è un errore dell’evoluzione (E. Mayr) e che la politica non è ormai soltanto un triste valzer dell’inconsistenza, perché è senz’altro vero che in ogni momento di crisi si nascondono le premesse e le opportunità per creare un mondo migliore. Come suggerisce il poeta Hölderlin, là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che si salva.

Wednesday, December 3, 2008

Connettere il patrimonio culturale, ma senza l'Italia


Un breve post per segnalare un fatto interessante: poco dopo il suo lancio ufficiale, Europeana, la grande biblioteca-museo-archivio virtuale e comune per tutti cittadini europei, ha visto chiudere il proprio sito. Il motivo? Nessun attacco hacker, nessun malfunzionamento tecnologico, nessuna interruzione di fondi da parte dell'Unione Europea, ma soltanto un grande crash dei server dovuto alla troppe visite, stimate nell'ordine di 10 milioni di accessi singoli all'ora. Dal sito del progetto: "popularity brings down the site - We launched the Europeana.eu site on 20 November and huge use - 10 million hits an hour - meant it slowed to a crawl. We are doing our best to reopen Europeana.eu in a more robust version." Un vero successo per tutti i sostenitori dell'Europa, della cultura e della "Repubblica delle Idee"!

Allo stesso tempo un commento sul blog "Europe" di Andrea Bonanni (Repubblica.it) ci offre una prospettiva più politica o, se vogliamo, più demoralizzante, legata all'affaire Europeana; di seguito una citazione del suo post:

Il ministro per le politiche comunitarie, Andrea Ronchi, ha lanciato un perentorio monito alle istituzioni europee sull'uso della lingua italiana (www.politichecomunitarie.it): costituito una task force che vigila sui siti comunitari…segnalateci siti comunitari senza la nostra lingua laddove questo risulti effettivamente penalizzante. Tutte le informazioni saranno raccolte in un dossier che servira' a rafforzare le nostre rivendicazioni>. Lo accontentiamo subito. La Commissione ha appena lanciato Europeana [...] [...] Ebbene, nella lista delle novanta istituzioni europee che partecipano all'iniziativa non c'è una biblioteca italiana, non un centro di ricerca o una rappresentanza nazionale italiana. Ci sono tutte le librerie nazionali (perfino quella dell'Islanda e del Liechtenstein) tranne quella italiana. Gli unici siti italiani presenti sono la Fondazione Federico Zeri, il museo di storia della scienza di Firenze e l'istituto per i beni artistici e culturali dell'Emilia Romagna. Istituzioni di prestigio, d'accordo, ma che non rendono certo l'idea del peso della cultura italiana nella creazione di una identità europea. L'assenza di istituzioni culturali che dipendono direttamente dallo Stato italiano è a dir poco scandalosa, soprattutto da parte di un governo che rivendica orgogliosamente i meriti della nostra cultura e della nostra lingua.

Tuesday, December 2, 2008

Sui rischi e sulle opportunità: dalla crisi finanziaria alla finanza islamica, fino al ruolo della Cina


Non è così banale riuscire a vedere in ogni rischio anche un'opportunità. Eppure questo è ciò che accade continuamente in tutto il mondo, specialmente in questi anni di transizione. Quando le crisi colpiscono in modo "non democratico" e non omogeneo a causa delle asimmetrie che nascono sui terreni della politica, dell'integrazione economica, della geografia e del declino egemonico, le prospettive ed i punti di vista si moltiplicano in un'esplosione caleidoscopica di ricchezza interpretativa della realtà.

Primo esempio: la crisi finanziaria che continua a soffocare il "turbocapitalismo" occidentale apre prospettive molto interessanti per la finanza islamica. Quest'ultima, con le sue regole stringenti, l'impossibilità di creare denaro dal denaro e la stretta connessione con le attività produttive materiali potrebbe elevarsi a modello da imitare per ricondurre la bolla finanziaria entro i binari della sostenibilità economica, sociale e ambientale, suggerendo le nuove regole del gioco dell'economia internazionale (Loretta Napoleoni, nel suo libro "Economia Canaglia" - ed. il Saggiatore, 2008 - suggerisce che i valori fondativi di un nuovo ordine globale vanno cercati proprio nella finanza islamica).

Così, mentre un Islam da sempre identificato con il radicalismo ha l'opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" (come direbbero Rajan-Zingales), il modello più occidentalista, quello americano, rischia di franare su sè stesso a causa di scelte politiche e non dal sapore molto "religioso". Joseph Stiglitz riassume in modo intrigante il declino, l'"immoralità" statunitense e l'irresponsabilità nei confronti del mondo intero non attraverso i sette vizi capitali, quanto piuttosto attraverso la miopia e il conservatorismo disciolti nei sette deficit capitali (altro che i deficit gemelli delle teorie macroeconomiche!): il deficit dei valori, il deficit del clima, il deficit dell'uguaglianza, il deficit della responsabilità, il deficit del commercio, il deficit del bilancio ed infine il deficit degli investimenti.

Secondo esempio: capovolgendo quando detto finora, là dove gli occidentali vedono un'opportunità, altri paesi - la Cina in particolare - vedono, se non un rischio, comunque un avvenimento non troppo rilevante. Il successo di Barack Obama è in questo senso emblematico: simbolo della vittoria della democrazia, degli ideali e della passione, nonché promotore dell'idea che una speranza ed un cambiamento di natura quasi "universale" siano possibili, la vicenda del neo-presidente eletto americano è quasi assente dal dibattito politico cinese; segno di una emergente autonomia politica e intellettuale cinese, oltre che del crescente fastidio asiatico verso il western globalism di un'America ormai in ritirata? Come osserva su ResetDoc Daniel Bell, professore di teoria politica all’Università Tsinghua di Pechino, in Cina, riguardo l'elezione di Obama, la popolazione

... sembra sorprendentemente indifferente. Sui siti web, ci sono pochi dibattiti che riguardano la politica americana e la gente sembra più interessata a parlare dei negoziati tra la Cina e i leader di Taiwan. Sì, i risultati elettorali americani sono stati trasmessi dalla televisione di Stato cinese senza alcun evidente pregiudizio – come accadde invece quattro anni fa – ma questo significa semplicemente che il regime ha meno da temere dall’esempio americano. Nel 2004, l’invasione dell’Iraq era ancora fresca nella mente dell’opinione pubblica e gli Stati Uniti erano messi in relazione più con le aspirazioni egemoniche che con gli ideali democratici. Oggi, il tracollo finanziario ha riabilitato la critica marxista al capitalismo e le lotte “sovrastrutturali” per la leadership politica non suscitano grandi passioni.

In aggiunta a quanto detto finora, la crisi finanziaria rappresenta per la Cina una grande sfida (aumenta la disoccupazione, diminuisce la crescita) ma anche l'opportunità per emergere definitivamente come nuova iperpotenza globale. Tralasciando il dibattito sulla possibilità di un futuro ordine multipolare fatto di molti centri e di molte periferie piuttosto che di una sola potenza egemone, è chiaro che oggi l'equilibrio precario dell'economia mondializzata si regge sulle spalle dei cinesi: dalla produzione a basso costo al finanziamento degli agonizzanti consumi americani, la Cina tiene le redini del capitalismo e, potenzialmente, potrebbe stringerle ancora di più. E' certamente vero che in questi casi non sempre il "creditore" è colui che vince,nel grande gioco delle relazioni internazionali, ma lo squilibrio esistente oggi non potrà durare a lungo e, come dice giustamente Romano Prodi sul Messaggero del 30 novembre u.s., se prima solo il capitalismo poteva salvare la Cina (quella di Deng Xiaoping e dell'"arricchirsi è onorevole"), adesso è solo la Cina che può salvare il capitalismo.

Forse la familiarità di quest'ultima frase rispetto a quanto detto precedentemente sulla finanza islamica e sulla sua opportunità di "salvare il capitalismo dai capitalisti" non nasce a caso: il mondo ha bisogno di nuove idee, nuovi punti di vista e nuove prospettive per uscire dal vicolo cieco della crisi e per tornare a vedere delle opportunità là dove oggi regnano soltanto rischi e paure. Ed è un peccato che l'Europa continui senza vergogna a vantarsi del proprio status di "autismo politico" nel momento in cui tutto il mondo avrebbe bisogno di un'Unione democratica e decisa, sicura ed aperta, una Federazione Europea capace di dare un nuovo slancio al lungo e difficile viaggio dell'umanità verso un futuro di Pace Perpetua.

Tuesday, November 18, 2008

La Cosmopolis e il Politeismo dei Valori


Sul numero di novembre della rivista "The Federalist Debate" ho pubblicato un breve essay dal titolo "Federalism and Polytheism of Values"; di seguito spiego brevemente (e integro) l'idea ed il ragionamento alla base dell'articolo.

Come si concilia la necessità di un governo mondiale, capace di dare un indirizzo politico alla globalizzazione (necessità sempre più palese dopo la crisi finanziaria e prima della crisi ecologica che arriverà), con l'obbligo morale di salvaguardare la pluralità delle culture, l'universo dei fini assiologici e delle filosofie della storia che ogni comunità elabora in base alla propria evoluzione, ai propri costrutti linguistici, alle influenze dell'ambiente e della geografia?

Dato che ogni cultura, per quanto piccola, debole o periferica, non subisce mai passivamente i tentativi egemonici e universalistici promossi dal "centro" ma adotta sempre e comunque un atteggiamento di reazione e ricombinazione sincretica e creativa delle istanze di novità (anche se imposte), probabilmente il modo migliore per far nascere un governo mondiale quanto più condiviso e condivisibile è quello di concentrarsi soltanto sui meccanismi istituzionali, sul progetto architettonico ancora da riempire di contenuti valoriali. Quali istituzioni possono creare un framework generale di co-abitazione, "indossabile" senza costrizioni da realtà differenti?

A mio avviso il Federalismo mondiale (World Federalism), inteso come modello di governo multi-livello basato sulla sussidarietà, è forse l'unica forma organizzativa capace di far coesistere l'uno ed il tutto, il generale ed il particolare, imbrigliando la complessità in una rete istituzionale che non annulli le affascinanti e molteplici forme attraverso le quali ogni comunità umana ha provato a rappresentare sè stessa e l'"altro".

La Federazione mondiale non vedrebbe la luce sulla base di un qualche valore generale o di un fine condiviso della storia, quanto piuttosto per motivi molto meno nobili: sarebbe uno strumento funzionale alla risoluzione di problemi globali, che devono essere affrontati dal "global village" all'unisono, pena l'estinzione dell'intero genere umano. Per evitare un olocausto nucleare e/o ecologico (che questa volta non risparmierebbero nessuno, complici l'integrazione economica e la pervasività della tecnologica a scala planetaria) servono alcuni, limitati, beni pubblici globali (global public goods): la Pace (impossibilità di conflitto), regole per il mercato, strumenti per lo sviluppo sostenibile e l'equità, un sistema monetario che non incarni la volontà di una singola iperpotenza, accesso libero ai beni comuni (acqua, aria, energia).

Il cantiere della riflessione sulle modalità politiche capaci di connettere il globale al locale in modo democratico, plurale e non-totalizzante è ancora aperto; quali sarebbero i micro-fondamenti della proposta di una federazione mondiale (ovvero, sulla base di quale legittimità si reggerebbe, a parte la consapevolezza di problemi comuni per tutta l'umanità)? Come sfruttare al meglio la teoria delle reti, l'analisi dei sistemi, la filosofia politica e morale, il "mechanism design", l'economia, l'antropologia ecc. per raffinare la proposta istituzionale? Detto questo, il pensiero e l'azione restano due campi - strettamente connessi - che seguono logiche diverse: se la teoria va avanti a formulare proposte e possibilità sempre migliori e più complesse, la nostra azione quotidiana non può invece attendere l'esito del perfezionamento teorico: battersi per la federazione mondiale, per la Pace Perpetua, per le istituzioni di un mondo più giusto, è l'unico modo per ridurre quella contraddizione fra fatti e valori che fa di noi dei militanti.

Thursday, November 13, 2008

Threats and Opportunities of a "Bretton Woods" number II


In vista della riunione del G20 di sabato prossimo, ho pubblicato un nuovo articoletto su Eurobull.it, dal titolo "Una Nuova Bretton Woods, ma solo se...", nel tentativo di mettere in evidenza non solo le opportunità, ma anche i rischi impliciti nella proposta, ormai sulla bocca di tutti, di una possibile riforma delle regole del gioco dell'economia e della finanza mondiale. Affinchè le riforme, sopratutto se di portata globale, siano veramente una boccata d'aria e "un nuovo inizio", è necessario aver ben chiari quelli che sono ad oggi gli equilibri di potere e la forza relativa di ogni attore in gioco i quali, come è accaduto nella conferenza originale di Bretton Woods, tenteranno di far oscillare dalla propria parte la lancetta dei guadagni, della visibilità e dei risultati.

Una piccola aggiunta all'articolo: come sempre i capi di stato e di governo dei paesi occidentali, sostenitori indefessi della conservazione, proveranno a mascherare l'immobilismo e l'incosistenza delle loro proposte come un velo di mediaticità rivoluzionaria, perseverando ancora una volta nell'impossibile tentativo di andare avanti restando completamente fermi. Ma se anche la Cina deve richiamare in patria il proprio ministro della finanza Xie Xuren, impegnato in una conferenza in Perù, per risolvere problemi economici (Nov. 7 - Bloomberg - China's Finance Minister Xie Xuren was called back from an international economic conference in Peru before the meeting began, following orders from Beijing to help resolve problems at home, an organizer of the event said...), questo è forse il momento per iniziare a pensare seriamente a delle possibili soluzioni alla crisi. Una crisi che non è solo della finanza, ma che riguarda intimamente la struttura della comunità internazionale, il ruolo degli stati, la sproporzione della dimensione produttiva rispetto a quella delle possibilità di controllo (democratico e non), la capacità dei cittadini di reagire alle sfide dell'ecologia, della convivenza multiculturale, dell'autocontrollo del consumo sfrenato e senza senso.

Wednesday, November 12, 2008

Il ritorno dell'intelligenza

Segnalo un pezzo di questo interessante articolo di Nicholas D. Kristof, apparso ieri su Repubblica (tradotto dal New York Times) e dedicato (come la gran parte degli articoli degli ultimi giorni) ad Obama. La prospettiva questa volta è però più "intelligente", e sottolinea come l'elezione del primo presidente afroamericano rappresenti anche la fine di una politica apertamente populista e anti-intellettuale.


"[...] non possiamo risolvere le sfide dell'istruzione se, secondo le statistiche, gli americani credono all'evoluzione tanto quanto ai dischi volanti, e quando un quinto di essi crede fermamente che sia il Sole a girare intorno alla Terra. Quasi la metà dei giovani intervistati per un sondaggio nel 2006 ha dichiarato che non è necessarío conoscere l'ubicazione dei Paesi nei quali si verificano avvenimenti importanti: ciò sarà sicuramente di sollievo a Sarah Palin, che secondo Fox News pensava che l'Africa fosse un Paese e non un continente.

Probabilmente John Kennedy è stato l'ultimo presidente a non vergognarsi della propria intelligenza e del fatto di aver nominato a far parte dei proprio governo le menti migliori dell'epoca. In tempi a noi più recenti, abbiamo avuto alcuni presidenti brillanti e colti che hanno fatto di tutto per tenere nascoste le loro qualità. Richard Nixon è stato un intellettuale che nutriva odio verso sé stesso, mentre Bill Clinton ha tenuto nascosto il suo fulgido ingegno dietro agli aforismi popolari sui maiali. Quanto a Bush, ha adottato l`anti-intellettualismo come vera e propria politica dell'Amministrazione, respingendo ripetutamente il contributo di persone competenti (dagli esperti di Medio Oriente ai climatologi più accreditati, agli studiosi della riproduzione). Bush è brillante nel senso che si ricorda fatti e facce: nondimeno non credo di aver mai intervistato nessuno che apparisse altrettanto disinteressato nei confronti di qualsiasi concetto.

Nella politica americana è almeno dai tempi della campagna per la presidenza di Adlai Stevenson negli anni Cinquanta che è uno svantaggio apparire troppo colti. Essere riflessivi equivale a essere considerati imbranati. Prendere decisioni con attenzione significa essere dei pappamolle. (Certo, non giova sapere che gli intellettuali sono spesso tanto pieni di sé quanto di idee. Si racconta che dopo un discorso molto profondo, un ammiratore tra la folla gridò a Stevenson: «Lei avrà il voto di ogní americano in grado di pensare!» e che Stevenson di rimando gli abbia detto: «Non mi basta: mi serve una maggioranza»). .

Ma i tempi forse stanno cambiando. Come potremmo spiegare altrimenti l'elezione nel 2008 di un professore di legge che ha studiato in un'università dell'Ivy League e che ha la sua lista di filosofi e poeti preferiti? [...]

James Garfield era in grado di scrivere simultaneamente con una mano in greco e con l'altra in latino; Thomas Jefferson fu uno studioso e inventore straordinario; John Adams era solito portarsi sempre appresso un libro di poesia. Ciò nonostante, furono tutti surclassati da George Washington, uno dei meno intellettuali tra i nostri primi presidenti.

Malgrado ciò, mentre Obama si accinge a trasferirsi a Washington, auspico con tutto il cuore che la sua fertile mente possa introdurre un nuovo modo di essere nel nostro Paese. Forse verrà presto il giorno in cui i nostri leader non dovranno più sentirsi in imbarazzo e in preda alla vergogna quando si scoprirà che hanno un cervello in testa."

Monday, November 10, 2008

Le mancanze della Sustainomics

Recentemente ho avuto l'occasione di ascoltare, ad un convegno organizzato dalla Provincia di Venezia e dal World Political Forum di Mikhail Gorbachev, l'intervento di Mohan Munasinghe, vice-presidente dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change - ovvero il panel di scienziati che ha condiviso il premio Nobel per la Pace con il più mediatico Al Gore) e chair del MIND (Munasinghe INstitute for Development); nel suo intervento sosteneva la necessità di rendere lo sviluppo più sostenibile, incorporando una nuova consapevolezza ecologista nei comportamenti umani ma sopratutto introducendo una serie di variabili di contesto all'interno dei modelli economici e di valutazione delle policy, variabili tradizionalmente considerate come esogene o ininfluenti nei modelli economici neoclassici. Il suo approccio, chiamato sustainomics, è un tentativo sincretico di riunificare gli studi economici con strumenti d'analisi propri dell'approccio dello sviluppo sostenibile.

Purtroppo, come accade ad una buona parte degli studiosi di problemi ambientali, la proposta appare più che altro una raccolta quantitativa di metodi, idee e strumenti correttivi, una opportuna complicazione di modelli troppo astratti o semplicistici, piuttosto che una nuova prospettiva qualitativa, capace di sfruttare i paradossi ed i limiti delle analisi tradizionali per rompere gli schemi ed indigare la cause più profonde della questione. E' vero, normalmente ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità, ma ciò che manca veramente ad approcci come quello della sustainomics è una riflessione sulle asimmetrie di potere che stanno dietro ai processi di cambiamento climatico e allo sfruttamento dell'ambiente.

Non basta la critica all'economia mainstream e all'antiecologismo economicista. Non è sufficiente andare oltre il particolarismo e al meccanicismo introducendo elementi di analisi dei sistemi, studio degli effetti di retrozione e feedback, attenzione al disequilibrio generato da ogni singola variabile. Se non guardiamo al modo in cui le dimensioni ambientale, sociale ed economica si intrecciano con le maglie del potere e della politica, anche un approccio orizzontale e mutuato dalle scienze della complessità, volto alla ricerca delle determinanti "distribuite" del problema del riscaldamento globale, risulterà incapace di essere esplicativo fino in fondo.

La crisi ambientale globale e, ancora più importante, la percezione della sua gravità e portata generale, sono fatti di natura estremamente politica. Politiche (e sociologiche) sono le cause, dalla spinta al consumo e alla domanda infinita (per sostenere l'industrializzazione di massa prima ed il mercato multinazionale on demand poi) alle distorsioni del mercato dovute alla competizione fra la potenze, dalle strategie di conservazione dell'egemonia portate avanti dagli USA alle piccole e grandi "ragion di stato" capaci di nascondere la necessità di global public goods per l'intera comunità umana dietro la mistificazione nazionalista. Politiche sono anche le conseguenze del "climate change": la differente posizione geografica dei vari stati implica differenti sfide, differenti incentivi e differenti guadagni (si, qualcuno potrebbe anche guadagnarci dal riscaldamento globale) dall'implementazione di soluzioni positive al problema; tutto ciò rende estremamente problematica l'attuazione di un patto mondiale per lo sviluppo sostenibile, almeno fino a quando durerà la divisione del pianeta in stati nazionali sovrani, evidente contraddizione rispetto alla globalizzazione dell'economia e alla contaminazione planetaria delle culture.

Il mutamento climatico è non democratico per sua natura; non è equo nè uguale per tutti proprio perchè colpisce i diversi popoli con intensità differenti, a seconda della loro abilità nell'adattamento e della fortuna/sfortuna geografica; la politica ed il potere si inseriscono nelle fratture aperte da questa non democraticità rafforzando la polarizzazione, lo sfruttamento e la dipendenza e rendendo il mutamento ancora più asimmetrico e pericoloso. Se gli studiosi di sustainomics non inizieranno a rendersi conto del gap di potere che sta dietro i rapporti fra le numerose variabili oggetto del loro studio, le loro proposte di cambiamento mancheranno sempre e comunque il bersaglio. E' la politica a dover recuperare la capacità di guidare l'umanità verso un'integrazione pacifica e sostenibile, gestendo il potere, quel Giano bi-fronte dal quale chi vuole cambiare la realtà non può prescindere, come la più grande forza di progresso e non come lo strumento di miopi scelte reazionarie. Altrimenti per il nostro pianeta non resterà nemmeno un piccolo spiraglio di futuro, rendendo vane le speranze e le battaglie di tutti coloro che hanno creduto davvero in un altro mondo possibile, in una società pacifica, equa e in armonia con l'ambiente.

Wednesday, November 5, 2008

A More Perfect Union

L'elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Obama è prima di tutto un evento profondamente simbolico: per il dialogo fra culture, per il "peccato originale" del razzismo americano, per la carica emotiva che ha accompagnato questa campagna elettorale, per mille altri motivi.

Mentre l'ondata neoliberista si spegne lentamente, colpita dai suoi stessi errori e dagli effetti delle crisi ambientale e finanziaria, Barack Obama introduce un nuovo linguaggio, un nuovo approccio, una nuova speranza nel sogno americano; le parole chiave del suo successo sono state hope e change, speranza e cambiamento, capacità di restituire anche all'uomo della strada la fiducia in una visione positiva del futuro, lontana sia dal manicheismo imperialista che dal nichilismo da "crisi della civiltà". Probabilmente il discorso più rappresentativo dell'anima "istituzionale" americana e maggiormente carico di contenuti politici fatto dal neo-presidente è quello tenuto il 18 marzo scorso al Philadelphia, dal titolo A More Perfect Union: in quella città, respirando l'atmosfera della Convenzione Costituente del 1787, Barack Obama ha ridato credibilità a quell'opera incompleta, a quell'"improbable experiment in democracy" che sono gli Stati Uniti d'America.

Purtroppo esiste anche una faccia negativa della medaglia, rappresentata questa volta da ciò che non è stato detto, dagli eventi lasciati in disparte; l'euforia per le elezioni non deve far dimenticare che l'amministrazione Bush ha ancora quasi due mesi di governo, durante i quali cercherà di sfruttare "al meglio" il tempo rimasto. Citando l'editoriale del New York Times del 4 novembre scorso:

While Americans eagerly vote for the next president, here's a
sobering reminder: As of Tuesday, George W. Bush still has 77 days
left in the White House — and he's not wasting a minute.

President Bush's aides have been scrambling to change rules and
regulations on the environment, civil liberties and abortion rights,
among others — few for the good. Most presidents put on a last-minute
policy stamp, but in Mr. Bush's case it is more like a wrecking ball.
We fear it could take months, or years, for the next president to
identify and then undo all of the damage.

[...]

We suppose there is some good news in all of this. While Mr. Bush
leaves office on Jan. 20, 2009, he has only until Nov. 20 to
issue "economically significant" rule changes and until Dec. 20 to
issue other changes. Anything after that is merely a draft and can be
easily withdrawn by the next president.

Unfortunately, the White House is well aware of those deadlines.


Tornando alle elezioni c'è un'altra questione significativa da sollevare, un punto che va al di là dell'Oceano Atlantico per toccare alla radice la crisi del processo di integrazione europea: gli europei, e in particolare la classe politica, hanno molto da imparare da quello che sta accadendo in questi giorni negli USA, qualunque sarà l'effettivo proseguimento di questa nuova avventura umana. Non si possono vincere le sfide politiche nel tempo della globalizzazione senza offrire ai cittadini dei sogni nei quali credere e dei simboli intorno ai quali la comunità può ricostruire la propria identità condivisa; servono nuovi orizzonti e un nuovo coraggio politico, servono proposte forti e democratiche. Solo seguendo l'esempio della reazione americana l'Europa potrà fondarsi come Federazione, unita nelle sue diversità. E, magari, anche la futura Costituzione Federale Europea potrà iniziare con le parole: "We the people, in order to form a more perfect union...".

Commenti impossibili e dissonanza cognitiva

Considerato che blogger non permette ormai da un paio di giorni di inserire commenti ai posts per colpa di problemi tecnici a me tutt'ora sconosciuti, "allego" in fondo a questo messaggio poche ma significative righe che mi ha inviato Lucia Ferrone riguardo le celebrazioni del 4 novembre ed il revival nazionalista. Quest'ultimo sarebbe da intendersi come il risultato di decisioni e percezioni falsate da un forte stato di dissonanza cognitiva in cui vivrebbero i cittadini europei (italiani in primis). Non posso che trovarmi completamente d'accordo con quest'analisi.

Il mio articolo sulla "dissonanza cognitiva" al quale Lucia si riferisce risale alla vittoria della coalizione Pdl-Lega alle ultime elezioni italiane e tenta di fornire una spiegazione dell'accaduto un po' fuori dal mainstream dei commenti politologici; potete trovarlo qui integralmente, mentre di seguito ne incollo un estratto:


«… questa teoria (ndr: fondata sul contributo del professore e psicologo sociale Leon Festinger) afferma che una persona la quale per l’una o l’altra ragione s’impegni ad agire in una maniera contraria alle sue convinzioni, o a quelle che crede essere le sue convinzioni, si trova in uno stato di dissonanza. Si tratta di uno stato sgradevole, e l’interessato tenterà di ridurre la dissonanza. Siccome il “comportamento discrepante” ha già avuto luogo, e non può esser disfatto, mentre le convinzioni possono esser cambiate, la riduzione della dissonanza può ottenersi principalmente modificando le proprie convinzioni nel senso di una maggiore armonia con le azioni».

In questo caso è la situazione politica italiana, europea e mondiale a generare lo stato di dissonanza; l’economia e la società del consumo e della competizione generano frustrazione, povertà e stress, ma dato che il contesto “discrepante” viene preso come un dato di fatto immutabile, risulta più facile mutare le nostre convinzioni. L’intervento di un messaggio politico populista e “disconnesso” dalla realtà dei fatti può a questo punto essere fondamentale nel ridurre la dissonanza cognitiva, fornendoci una visione del mondo semplificata e “migliore”. Se ciò è vero, quanto più il messaggio sarà falsato, eccessivamente propagandato o ampiamente implausibile, tanto più verrà accettato e tanto meglio si diffonderà, perché funzionale a far dimenticare una realtà complessa e sfavorevole. Da questo punto di vista gli italiani hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte ad un mondo sempre più tecnico e difficile da capire (o da semplificare per mezzo di un’ideologia) ed hanno accettato con piacere e sollievo il prezzo di un programma di governo fatto di promesse, ipocrisia e irresponsabilità, ottenendo in cambio una drastica riduzione del disagio provocato dalla vita nel mondo contemporaneo.

Come ho già detto in precedenza, una spiegazione esaustiva delle ragioni del voto sarebbe necessariamente molto più approfondita e specialistica, dovendo declinare gli effetti delle identità e delle appartenenza di gruppo (siano queste di partito, territoriali, sociali, economiche e così via), ma pensare la scelta elettorale come uno strumento collettivo per ridurre la forte dissonanza cognitiva generata dalle difficoltà di un mondo plurale e complesso è un’ipotesi intrigante e, per certi versi, realistica.



Commento di Lucia:

Credo che la spiegazione che tu stesso hai proposto delle ultime elezioni sia calzante anche in questo caso: dissonanza cognitiva, e tentativo di riduzione della stessa. Non è nonostante la de-nazionalizzazione, ma proprio a causa di essa, che, a mio parere, si è creata questa ondata di revival nazionalista, come lo chiami.
L'insicurezza, la paura e la crisi fanno il resto, ma anche queste sono conseguenze di una globalizzazione a briglia sciolta, come ben sappiamo. Credo che faccia paura, anche su un piano psicologico, rendersi singolarmente responsabili dei problemi e affrontare soluzioni di tipo cooperativo, che comunque metterebbero gli individui in primo piano. Affidarsi a una identità superiore fa sempre comodo, e ancora più comodo a qualcosa che si sente vicino e "familiare" come lo Stato Nazionale. E proprio nel processo di costruzione di queste identità che si creano storie e miti, identità mai esistite (vedi Sen).
Inoltre, se vogliamo divertirci con le teorie del complotto (sempre molto in voga anche loro nei momenti di crisi), potrei sostenere che gli Stati, consci della loro perdita di potere, fanno di tutto per aggrapparsi agli ultimi scampoli di gloria, istillando paura e dubbio, affinché i cittadini chiedano aiuto.
D'altra parte lo Stato è un attore collettivo, come tale non è la semplice somma delle parti, ed ha, guarda caso, un'identità propria. Collettiva pure quella, ma singola nella sua unità. O almeno ci prova.

Lucia.

Tuesday, November 4, 2008

4 Novembre, festa dell'Unità Europea

Su Eurobull.it ho provocatoriamente sostenuto che il 4 novembre, festa delle forze armate e dell'unità nazionale in ricordo della "vittoria" italiana nella I Guerra Mondiale, dovrebbe essere dichiarata "festa dell'unità europea" e che le uniche forze armate veramente degne di ringraziamento sarebbero quelle di un auspicabile esercito europeo, capace di trasformare l'Unione in una vera potenza civile (senza contare i risparmi economici sui bilanci nazionali, molto importanti in questi tempi di tagli generalizzati).

E' interessante e allo stesso tempo preoccupante seguire giorno per giorno la cronaca di questo revival nazionalista che sta investendo tutto il vecchio continente.. sopratutto per provare a capire in che modo un sentimento di appartenenza identitaria tipico del '900 possa evolversi nel contesto della de-nazionalizzazione che stiamo vivendo; ancora più affascinante è poi osservare la mistificazione all'opera, la ricostruzione attenta del passato e la reinvenzione dei miti mai esistiti.

D'altronde lo Stato, così come il perseguimento del "destino nazionale", sono semplici costrutti istituzionali e sociali, meccanismi assolutamente non universali ma ben collocati storicamente nel lungo percorso degli eventi umani; casomai l'unico destino sovraindividuale possibile a questo mondo potrebbe essere quello appartenente all'intera umanità, posta difronte alla scelta se autodistruggersi in un olocausto ecologico e nucleare o salvarsi per mezzo di un cambiamento radicale, una rivoluzione pacifica che attraverso delle istituzioni democratiche globali assicuri l'impossibilità dei conflitti armati e faccia prevalere la forza del diritto sul diritto della forza.

La divisione in stati nazionali della comunità umana è cosa obsoleta e pericolosa ma, come citava qualche tempo fa l'Irish Times "we humans are quite good at building new institutions in response to changing circumstances. Unfortunately, we can be a bit slow about dismantling older ones, and often focus more on the institution than on the job it is supposed to do." Sta al nostro coraggio e alla nostra fantasia andare oltre le categorie ed i muri concettuali esistenti, ricordandoci ogni volta quello che dicevano i primi astronauti che guardavano ammirati il nostro pianeta: "dall'alto la Terra non ha confini, nè frontiere".